Lucio Battisti ha lasciato in eredità dei classici intramontabili che sono canzoni semplici. La canzone del sole è addirittura uno dei brani che si utilizzano per imparare a suonare la chitarra – a proposito di semplicità. E più in generale, la dicotomia con Mogol non è esattamente indecifrabile nei testi o particolarmente elaborata nella parte compositiva, melodica e armonica. L’immaginario generale di Battisti, fortemente influenzato dagli anni con Mogol, lo pone come uno dei cantautori più accessibili, lontano dalle elucubrazioni di De André o di Gaber. Eppure, dentro di sé, ha sempre covato il desiderio di qualcosa diverso, complicato, quasi involuto, nelle liriche e nella musica.
E a un certo punto, precisamente nel 1986, ha deciso di cambiare tutto, rinnegandosi fino a rendersi quasi irriconoscibile.
C’è chi parla di un graduale ritiro dalle scene del cantautore dopo l’epilogo del sodalizio con Mogol. Ma quale ritiro dalle scene: Battisti pubblicò sei dischi negli anni successivi, gli ultimi cinque con un nuovo compagno, Pasquale Panella.
Con Panella, ci furono due rivoluzioni copernicane nel modo di fare musica di Battisti. Primo: venivano scritti prima i testi, e poi le melodie, al contrario di come era stato fino a quel punto. Secondo, le liriche di Panella, per volere stesso del cantautore, dovevano essere, a primo impatto, incomprensibili.
Taylor Swift, in un celebre discorso a Billboard del 2019, disse di aver compiuto un entire genre shift tra “Red“e “1989“
Fa sorridere, se si pondera con quello che fece Battisti, passando da Mogol a Panella. Gli anni della loro collaborazione passarono alla storia come il Periodo bianco, epiteto nato per le copertine degli album, tutte bianche con disegni astratti di difficile decifrazione. Battisti esplorò dei generi che solo negli ultimi quindici anni sono veramente entrati nella musica italiana più mainstream. Questo dà un’idea di quanto Battisti era avanti rispetto ai suoi tempi, considerando che Hegel, l’ultimo disco, uscì nel 1994. In questi album, c’è il synth pop, c’è l’elettronica, la dub, il rap, e perfino la techno. Qualcosa che, all’epoca, non si era visto quasi mai.

Il quarto disco con Panella, “Cosa succederà alla ragazza“, fu definito da Mario Luzzato Fegiz “un disco senza amore, un incubo, non so se più raggelante o tedioso, il naturale sbocco di una vita artistica arida”.
Forse un po’ eccessivo (ma è cosa nota che certa critica musicale di vecchia scuola fosse più improntata alla ricerca della frase ad effetto, che, appunto, alla critica musicale). D’altro canto, però, comprendere C.S.A.R. nel 1992, l’anno in cui uscì, non era affatto facile. Se non altro, perché non c’erano, al di fuori del Periodo bianco, altri termini di paragone.
“Cosa succederà alla ragazza” è un album che è arrivato nel momento in cui era chiaro che il vecchio Battisti non sarebbe tornato, e in cui le vendite dei dischi diminuivano uno dopo l’altro.
È un disco che non si trova su nessuna piattaforma di streaming, ma si può ascoltare integralmente, oggi, su Youtube. Contiene 8 brani e dura 40 minuti, ed è probabilmente il punto più alto raggiunto dal cantautore nel processo di decostruzione e ricostruzione di sé. Se dal punto di vista del sound risulta uno dei più estremi del Periodo bianco, la struttura delle canzoni risulta abbastanza canonica e decifrabile. I testi continuano a essere astrusi, immaginifici; la voce di Battisti, invece, è un porto sicuro che non solo è filo conduttore del brano, ma è l’unico appiglio per un’ancora al passato.
La title track, brano che apre il disco, è una canzone strabiliante.
Un brano elettronico martellante, il più disturbante di tutto il disco. Una canzone che possiede incisi definitivi, in cui Battisti si sfoga, urla, narra la storia di una ragazza in profonda crisi interiore. Quasi una pignatta tra i giudizi di tutti quelli che la vogliono un po’ scoperta per accertare, la vogliono nell’ascensore per implorarla da che piano a che piano. Dopo Tutte le pompe, il pezzo più ordinario ma anche ordinato del disco, con un basso che pulsa il ritmo quasi nascosto, arriva una sequenza di quattro canzoni, sinceramente, allucinanti.

Si parte con il funky di “Ecco i negozi“
Il testo è lunghissimo, una strofa dietro l’altra, in cui si susseguono descrizioni situazionali e riflessioni più metafisiche (si diventa termometri contraddittori / si passa tra le cose sfuse e vaghe / come tra lacci d’alghe / di tante maghe Circi annegatrici, così inizia la quarta strofa, qualunque cosa volesse dire).
Con La metro eccetera arriva la techno, che fa da sfondo a un racconto urbano di un treno della metropolitana e dei passeggeri che lo popolano, in cui si fa la trigonometria dei finestrini corrispondenti agli occhi alessandrini di lei che fissa un suo sussulto fuso nel vetro. I sacchi della posta è un brano elettro-dance.
Però il rinoceronte è il capolavoro del disco, dove due linee diverse di synth armonizzano con il basso e la batteria su cui è costruita la melodia. Un sovraffollamento che rende l’idea della grandezza compositiva della canzone, e di tutto C.S.A.R. E si arriva poi al brano finale, Cosa farà di nuovo, dove Battisti arriva addirittura a rappare in qualche verso.
Fino a prima di approfondire il Periodo bianco, nell’eterna dicotomia dell’omonimia, sceglievo sempre Dalla. Ora, quantomeno, chiedo delucidazioni su “quale Battisti intendiamo”, prima di dare la mia risposta.
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