Fabrizio De André, una volta, citò Benedetto Croce, quando diceva che fino a diciott’anni tutti scrivono poesie. Poi, rimane che a scriverle sono solo i poeti o i cretini. De André disse sostanzialmente che tertium dabatur, ed era la musica. Mi è venuta in mente questa frase mentre pensavo che fino ai vent’anni ho frequentato assiduamente i Poetry Slam in giro per Milano, finché a un certo momento ho smesso di farlo, e ascoltare la musica è diventato un sostituto sempre più preponderante.
Ai Poetry Slam c’è una regola fondamentale: vale solo la voce. Niente strumenti musicali, niente basi, nessun accompagnamento è concesso. Sono le parole, le protagoniste. E proprio perché non c’è nulla con cui le parole debbano scendere a compromessi, vige una libertà compositiva pressocché totale. Del resto, il verso libero è stato ampiamente sdoganato da ormai più di cent’anni, e la poesia, per essere chiamata tale, non deve sottostare a leggi metriche. Il parallelismo in musica più ovvio, naturalmente, è il rap. Che però è legato ai beat, alle metriche, e anzi, riuscire a comporre versi che ci si incastrino è un parametro di bontà della scrittura.
Tra il rap e lo slam poetry, c’è una via di mezzo.
Un genere musicale, se così si può definire, che per la verità in Italia non è mai diventato un vero e proprio fenomeno. Pochi esponenti, poche canzoni: lo spoken word. Ovvero, testi parlati su una base musicale. Dallo slam poetry, lo spoken word mutua la libertà narrativa totale. Le parole fluttuano libere, dettano i ritmi, raccontano storie con dovizia di particolari. Dal rap, la possibilità di utilizzare la melodia e l’armonia come strumento lirico ulteriore per accompagnare il testo. Per capirci, quello che De André fa in Un chimico. Un tempo (per esempio nella Grecia Antica), erano gli stratagemmi metrici a conferire drammaticità a certi momenti della narrazione. Con la musica moderna, questo compito è affidato all’arrangiamento e alla composizione (primavera non bussa, lei entra sicura – e il fatto che proprio in quel momento entri una seconda voce acuta femminile).
Lo spoken word, in Italia, possiede due antesignani che hanno padroneggiato il genere. Da un lato i Massimo Volume, e le loro storie verbose e noir. Dall’altro gli Offlaga Disco Pax, e la voce di Max Collini su testi politici, irriverenti, dissacranti. Poi ci sono Le Luci Della Centrale Elettrica e Vasco Brondi, che sono sicuramente tante cose, ma sono anche spoken word. Anche se quasi nessuno li andrebbe a inserire in una lista del genere, proprio per la loro moltitudine. Ma lo spoken word ha attraversato tutta la loro storia, partendo da Sere feriali che sta dentro Canzoni da spiaggia deturpata, arrivando fino a Chitarra nera.
Poi arrivarono i Disturbati Dalla CUiete.
Un duo trevigiano fondato da Alberto Dubito e Dj Sospè. Uno spoken word usato come voce di una sottocultura, di un movimento di protesta che vedeva nella parola e nella poesia l’arma più potente. Un vulcano di pensieri, idee, narrazioni, che si spense con il drammatico suicidio di Alberto Dubito a soli vent’anni. Nacque poi qualche collettivo che provò a seguirne le tracce, il Premio Dubito per la commistione di poesia e musica. Che però, purtroppo o per fortuna, ognuno può scegliere, non riuscì mai ad affermarsi come una realtà nel mondo della musica italiana.
Oggi, lo spoken word esiste sostanzialmente in due modi.
Da un lato, come scelta consapevole. Con collettivi, perfino etichette discografiche che portano avanti questo modo di esprimersi. Dall’altro, come una specie di deriva di alcune band emo e post-punk. Negli ultimi due anni, la scena underground delle province è stata invasa da shoegaze, chitarre elettriche, batterie. A volte, questo disagio, questa necessità di verbalizzare, è sfociata in brani spoken word. Sono band che non necessariamente ricorrono a questo espediente in via esclusiva. Ma che ci ricorrono, quando il disagio diventa preponderante, e non riesce a vivere incastrato dentro le metriche della musica.
Abbiamo selezionato 5 artisti molto contemporanei, alcuni provenienti dal primo mondo, altri dal secondo.
Artisti e band che, appunto, non necessariamente si servono solo dello spoken word. Ma che, con qualche pezzo, ci hanno ricordato quanto questa forma artistica sia in grado di scalfire resistenze emotive, e colpire i bersagli con una potenza disarmante. Più una band un po’ meno contemporanea, ma che non citare sarebbe quasi un delitto.
Risorse Umane

Le Risorse Umane sono una band post-punk, che nasce tra Milano e Ancona. Tre ragazzi con la passione per la new wave e per il sound noir. Ed è proprio così il loro catalogo musicale rilasciato fino ad oggi, su per giù una ventina di brani. Canzoni oscure, disturbate. I primi tre EP arrivano nel 2024. Brani che ricordano la techno e l’elettropop che esplorò Battisti nel suo penultimo disco, Cosa succederà alla ragazza – e che proprio da quel disco sembrano tratti. Pezzi volutamente stroboscopici, apparentemente disarmonici, che però si incollano in testa.
A inizio 2025, arriva Desistere, il primo brano in spoken word. Seguito poco dopo da Dovresti ascoltare i Diaframma, un ricordo nostalgico e disilluso degli anni dell’università. Un brano che si muove tra pensieri in libertà e citazioni dei Fine Before You Came. E che, quando finisce, lascia con lo stomaco leggermente trafitto. Il perfetto esempio della potenza emotiva che lo spoken word riesce a rifilare.
La canzone da ascoltare: Dovresti ascoltare i Diaframma
Lenore

Di Lenore, non si sa molto. Se non che dietro il moniker si cela Valeria Rocco di Torrepadula, una dottoranda napoletana, appassionata di commistioni tra musica e poesia. Nel 2024, ha pubblicato un libro, Per non aver commesso il fatto, dove il testo si combina con una performance vocale. Sulle piattaforme di streaming, sono presenti due brani con il nome Lenore. Nel tuo letto sento un’assemblea, elettropop ipnotico e martellante. E ogni tanto fa un gesto chiaro, brano recitato di impronta Colliniana, con la base che si muove più o meno drammatica a seconda del testo. Lenore è un’artista ancora in fase di sperimentazione.
Grazie ai suoi studi accademici, conosce a menadito la teoria del genere musicale e le tecniche per renderlo efficace. Manca giusto qualche piccolo guizzo creativo – che è tuttavia presente in alcuni testi pubblicati in antologie, come “This will find you at the right time”, contenuto in “Troppo cinici per amarci”. Se questa brillantezza narrativa arriverà anche nei pezzi, saremo di fronte a una rappresentazione del genere da tenersi belli stretti.
La canzone da ascoltare: ogni tanto fa un gesto chiaro
Monosportiva

Monosportiva è un progetto che proviene dall’universo dei collettivi di contaminazione artistica. Precisamente, da Zoopalco, che ha base a Bologna, e che qualche anno fa ha deciso di diventare un’etichetta discografica, ZPL, con il tentativo di dar voce allo spoken word, cercando di farlo arrivare nei luoghi della musica italiana. Tra i tre artisti del roster, assieme a Mezzopalco e agli Osso Sacro, c’è Monosportiva. Nata dall’unione tra Eugenia Galli e IIO, un producer di musica elettronica. L’opera di Monosportiva indaga il tema del sex work, dell’identità di genere, del femminismo. In modo diretto, senza filtri, e con una notevole ricerca lessicale.
La canzone da ascoltare: C4MG1RL
Narratore Urbano

Narratore Urbano è una realtà che nasce a Torino da Alekos Zonka nel 2019, e che dal 2022 coinvolge anche Luca Abbrancati (al basso) e Giorgia Capatti (alla batteria). Il punto di partenza è quello di voler unire l’alternative rock con un’attenzione particolare alle parole. Soprattutto, un’attenzione particolare a tematiche sociali. Lo spoken word arriva in CTRL, l’album uscito alla fine del 2023, e che ha portato Narratore Urbano in giro per l’Italia in tour. Il pezzo in questione si chiama Anakin Skywalker, ed è tra tutti i pezzi del disco quello meno politico e più introspettivo. Forse un’idea inconscia che i temi più sociali debbano essere affidati al rap, che per definizione è un genere che esiste per discutere di questo.
La canzone da ascoltare: Anakin Skywalker
Di noi stessi e altri mondi

Tra tutte le band citate finora, Di noi stessi e altri mondi è quella propriamente più spoken word di tutte. Nella misura in cui il loro album, Tutto lascia traccia, è composto interamente da pezzi recitati. La produzione del disco strizza l’occhio al post-rock dei Massimo Volume, e gioca con le metriche, con la voce che talvolta ci finisce volontariamente fuori, con una pausa di troppo che spinge ad accelerare gli ultimi versi, per darci più rilievo, più accento. Vengono da Brescia, che è una delle città italiane dove il rock underground esiste, e guidato da realtà più consolidate come i Cara Calma cerca di autoalimentarsi. Uno spoken word così preponderante è una scelta di coraggio, che richiede tempo e dedizione, in un’epoca dove si storce il naso davanti a pezzi che durano più di tre minuti.
La canzone da ascoltare: Ultima chiamata
C’è poi una band, che viene da Prato, che si chiama Tutte le cose inutili.
Che è attiva da un tempo un po’ più lungo rispetto alle precedenti, e che dunque, per ragioni puramente cronologiche, non è stata inclusa nella lista sopra. Tutte le cose inutili, però ha composto una canzone, che si chiama Bombe carta. E personalmente, credo che si possa discutere a lungo dello spoken word. Ma ascoltare questo pezzo, e basta, credo sia altrettanto efficace.
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