“Ananke”: Nicolò Carnesi, la mitologia greca e l’illusione dell’infinito

Se non hai mai ascoltato la musica di Nicolò Carnesi, puoi recuperare partendo dal suo ultimo album “Ananke” e da lì andare a ritroso: attraverserai diverse stanze della mente che ti faranno vivere altre vite in altre forme, tra galassie ed eroi, storie umane e mitologia.

Con alle spalle una discografia ricca di immagini, o meglio, di paesaggi emotivi, la poetica di Nicolò Carnesi è capace di portarti altrove, con la mente, con il cuore e con lo spirito. Il 30 maggio è uscito il suo quinto album “Ananke”, un disco nel quale torna l’elemento etereo, quello del mito, quello che possiamo dire di aver intravisto ne Gli eroi non escono il sabato ma questa volta è una visione decisamente più onirica.

Se prima il sound ti faceva vagare con la testa, pur rimanendo realistico, concreto, questa volta “Ananke” ti fa sollevare i piedi dal suolo, dandoti la sensazione di perdere la gravità, in un mondo astratto, infinito. È proprio questo l’obiettivo della musica del cantautore siciliano: farti dimenticare che invece siamo tutti in balia del caos in un mondo finito.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Nicolò, tra mito, filosofia e pragmatismo.

Ananke Nicolò Carnesi
Nicolò Carnesi – Ananke [Ascolta qui]

Quando hai capito che stava nascendo “Ananke”?

L’ho capito di notte, mentre meditavo attraverso la musica. Facevo queste suite lunghissime in cui suonavo la chitarra, usavo sintetizzatori, campionavo voci e vinili, e a un certo punto ho cominciato a pensare che tutto questo sarebbe potuto diventare un album. Dovevo solo capire cosa dire, non avendo la benché minima voglia di parlare di me. Essendo cresciuto in Sicilia e appassionato di filosofia classica, ho iniziato a leggere e sono arrivate le prime suggestioni che avevano a che fare con la Grecia antica. Allora ho pensato di raccontare proprio la base delle storie occidentali, quelle che ci accomunano, e quindi ho scelto il mito greco.

Hai dichiarato di aver fatto tutto da solo in questo album. Ne sentivi la necessità o è stata una scelta “obbligata”?

Ne ho sentito la necessità quando ho cominciato. Inizialmente suonavo, improvvisavo, era diventata davvero una sorta di meditazione. Era un modo per me di dimenticare delle cose, dimenticare me stesso nei momenti più alti di queste improvvisazioni musicali. Finché non ho capito che stava uscendo un suono interessante, proprio perché era tutto un mio viaggio mentale, quindi sarebbe stato inutile andare a cercare un compromesso con qualcun altro. Il disco ha una sua peculiarità, con pregi e difetti, però è esattamente il suono che volevo. È diventata poi l’unica strada percorribile per questo disco. È stato veramente divertente. Scrivere queste canzoni mi ha liberato da alcuni fantasmi… È stato bello.

In “Prometeo” scrivi “L’umano soffre/Non impara dalla sorte”, tu che speranze riponi nel genere umano, ora come ora?

Zero. Io penso che l’essere umano prima o poi riuscirà a distruggersi, ci sta provando in tutti i modi. Credo fortemente nell’individuo, nella grande capacità dell’essere singolo di fare opere immense. È anche vero che poi è stata la collettività di queste singolarità che ha creato le consapevolezze e le conoscenze di oggi. Ho l’impressione però che, quando queste consapevolezze si ingrandiscono e diventano più collettive, vengano poi utilizzate male.

Io sono di base pessimista nella vita, tendo sempre a pensare male. Ho l’impressione che i mezzi che abbiamo oggi, proprio perché così potenti, come già si intuiva col fuoco di Prometeo, possano portarci verso la distruzione. Ovviamente la mia speranza è che non succeda, che vinca la ragione, l’empatia, ma molto spesso la storia ci insegna che siamo capaci di fare atrocità terribili.

Nel singolo “Orfeo” invece scrivi “la trama dei tuoi anni è un filo rotto/Il mio ago è una corda/per ricucirli” ti è mai capitato di ricucire gli strappi dell’anima di qualcun altro?

Credo di sì, però non in maniera diretta. Penso che la musica ogni tanto lo faccia. Ho avuto delle confessioni molto intime di persone che hanno trovato conforto attraverso le mie parole, la mia musica e, quando accade, mi da’ una grande soddisfazione perché sento di stare facendo qualcosa che abbia un minimo di senso. Mi è capitato forse di più l’opposto, di essere stato ricucito qualche volta.

Nel disco, ci sono alcune tracce strumentali che fanno da ponte levatoio tra i testi, aiutano a trasportarci ancora di più in questa dimensione onirica. L’hai mai percepito come un potenziale rischio?

La scelta era già rischiosa, se proprio vogliamo. Stavo già facendo una cosa anacronistica perché è un concept album e oggi invece viviamo di singoli da due minuti e mezzo che cercano di entrare nelle playlist. Non ho pensato minimamente ad alcuna dinamica commerciale. Nella mia mente, quello che volevo raccontare doveva arrivare in primis attraverso la suggestione musicale. Le parole che ho messo erano necessarie per contestualizzare e far capire meglio le storie dei miti più complessi. In molti casi mi sono abbandonato semplicemente a dare una musicalità a queste storie così importanti per la nostra cultura. Anzi, più andavo avanti e più liberavo totalmente tutte le mie suggestioni fino all’ultima traccia.

C’è una divinità che ti rappresenta di più?

Me ne piacciono molte. In questo caso, riferendomi al disco, scelgo Orfeo, perché è un po’ il santo protettore di noi musici e giullari. Tra i suoi significati, ce n’è uno che mi affascina tanto, ed è quello che vede Orfeo come una sorta di artista controcorrente, contro le tendenze, se vogliamo riportarlo ad oggi. Talmente ostinato da pensare di poter sconfiggere la morte. Ma la morte non la può sconfiggere nessuno, neanche lui che spostava alberi e montagne.

Penso che lo stato ultimo dell’arte sia la dimenticanza. Riuscire a farti percepire che la morte possa scomparire. Nel momento in cui una bella opera ti distrae, ti eleva a tal punto che ti dimentichi che le cose sono finite e non infinite. E in quell’infinito mi piace perdermi, e lo vorrei trovare più spesso.

Ananke Nicolò Carnesi_ph.Marianna Fornaro
Nicolò Carnesi, ph. Marianna Fornaro

È più eroico accettare il proprio destino o provare a combatterlo?

Beh, non a caso il disco si chiama Ananke, che è la dea del fato e della necessità. È necessario che tu compia delle azioni ma è anche ineluttabile che accadano delle conseguenze prestabilite. I personaggi di cui racconto girano sempre intorno allo stesso destino e forse anche gli esseri umani girano attorno allo stesso fato. Non so se un atto di eroismo ci sia veramente o è semplicemente l’accettazione di quello che ti accade e cercare di viverlo al meglio.

Per te che cos’è il destino?

Fondamentalmente, è ciò che deve necessariamente accadere. Non essere in grado di conoscerlo non è importante, è una pura speculazione filosofica. Ci piace pensare che ci sia un senso in quello che viviamo e, spesso, viene spiegato o giustificato con un “doveva andare così”. C’è quel millisecondo che ti cambia tutto. Di momenti così, in realtà, noi ne viviamo di infiniti ma non lo sappiamo, che siano in positivo o in negativo. Non conoscendolo rimane comunque una speculazione filosofica affascinante ma, nel mio lato più pragmatico e cinico, credo che il mondo sia governato dal caos.

Io credo nella divinità caotica, ovvero quella primordiale. Prima del tutto c’era il caos, e non si scappa dal caos. Il caos regna sovrano nell’universo. Non riesco a immaginare che tutto questo sia stato voluto. Mi piacerebbe pensarlo però la mia mente rimane ancorata a questo pragmatismo filosofico che poi combatto con l’arte. L’arte è l’opposto, l’illusione che il caos non ci governi.

Il tuo paese d’origine ha portato delle influenze nella tua musica?

Ma sì, non la scegli l’influenza. Non scegli né quando avere il raffreddore né quando essere influenzato dalla tua esistenza, dal tuo retaggio culturale. La Sicilia la sento dentro di me. Più cresco, più conosco il mondo al di fuori, più mi rendo conto che ci sono delle caratteristiche precise in alcuni siciliani in cui io mi riconosco tanto. Ad esempio lo vedo in Colapesce e Dimartino, abbiamo un modo di ridere sulle cose che è tipicamente siciliano. È difficile da spiegare. Quindi la risposta è si, sia nella vita che nella musica, anche se non suono le tarantelle. Il siciliano ha anche una grande malinconia di fondo nel percepire l’esistenza, e in quello io mi ci rivedo molto.

Nicolò Carnesi, ph. Marianna Fornaro

C’è, tra i tuoi album, uno al quale sei più affezionato?

Il primo, perché è quello che ha dato inizio a tutto. L’ho scritto senza pensare potesse diventare un album. Venivo da un periodo complicato, di post adolescenza, dove avevo combinato una marea di casini. Fino a quando non ho cercato di darmi una regolata e in quel periodo ho cominciato a scrivere quelle canzoni e, anche se può sembrare una frase fatta, mi hanno salvato la vita. Era destino… (ride) Il periodo più bello della mia vita lo ricollego a quel tour. Erano altri tempi, si suonava tanto, la musica si viveva dal vivo, la portavi in giro, non c’era Spotify, non c’era lo streaming. I primi tour senza navigatore… il periodo più divertente della mia vita.

Pensi di rimanere legato in futuro a questo sound etereo o pensi di ritornare sulla terra?

Non ne ho idea. In questo momento sono affascinato dal mare e dall’abisso. Il mare è mondo, è pianeta. Nel disco dico “per tornare in profondità nell’oceano dove tutti nasciamo”. Ecco, quella frase quando l’ho scritta mi ha fatto scattare qualcosa. Probabilmente sarà un’altra suggestione, però mi piacerebbe parlare del mare in maniera approfondita. Sto comprando dei libri… il sound non lo so, mi annoio a fare le stesse cose.

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