Any Other vive la musica come quando suonava all’autogestione del liceo
Intervistare Any Other, a pochi giorni dall’uscita di Per te, che non ci sarai più, un EP di quattro canzoni ruvide, scritte di getto, è stata un’esperienza insolita. Circa dodici anni fa, in un liceo di Verona, Adele suonava durante l’autogestione con il suo duo, le Lovecats, agli albori della sua carriera musicale. Anche io frequentavo quella scuola, ed ero tra il pubblico ad ascoltarla. Mi ricordo che rimasi così attratto da quel soft folk, che acquistai il primo EP delle Lovecats, contenente qualche demo, con la copertina disegnata a matita. Mi ricordo che pagai cinque euro: oggi è una specie di reperto archeologico.
A più di dieci anni di distanza, Adele è una musicista.
Una musicista che, attraverso tre dischi e qualche EP, è riuscita a mantenere un’integrità compositiva invidiabile. Le logiche commerciali non le sono mai appartenute. Come dimostra, appunto, la scelta di pubblicare quattro canzoni estrapolate da album o da progetti di più ampio respiro. Due brani in italiano, con cui Any Other si è cimentata per la prima volta, uno in inglese, uno addirittura in giapponese. Non il classico EP, insomma.
L’ho incontrata per scavare un po’ più a fondo nel disco, nel tour che la sta portando in giro per l’Italia un po’ full band un po’ da sola, e per capire come si fa ad elaborare il dolore per le perdite – di un animale, di un amico, di un amore. Partendo, non poteva che essere così, da dodici anni fa.

Quando ho ascoltato l’EP, soprattutto “Distratta“, mi sono venuti in mente un po’ gli inizi, e gli inediti delle Lovecats. Non so però se sia realmente così, o se invece è un tema di produzione: la scelta di lasciarla scarna ed essenziale in questo EP, e i pochi mezzi che magari avevate all’epoca…
Non c’era l’intenzione di tornare indietro a quel momento specifico, ma c’era sicuramente voglia di ricollegarsi a un modo un po’ istintivo di suonare i pezzi. Ha senso come osservazione, c’era appunto questa voglia di avere un po’ meno filtri.
I pezzi, infatti, sono stati scritti di getto, sono estremamente diretti: li hai composti insieme? Sono arrivati in momenti diversi?
Appunti vari, li ho presi nel tempo. Ad esempio, il ritornello di Distratta: quattro anni fa mi ero segnata una bozza. Poi di fatto i pezzi li ho scritti tutti a Settembre dello scorso anno, tolta qualche frase sparsa. Li ho composti in un paio di mesi.
Quattro pezzi che vivono da soli: che posto trovano nel tuo percorso? Sono un’appendice di stillness, stop: you have a night to remember, il tuo ultimo disco? Un preludio a qualcosa che verrà? O semplicemente loro quattro?
Secondo me tutte e tre le cose. Hanno un valore di risoluzione nei confronti dell’ultimo disco: mi aveva fatto penare molto, e volevo superare questo senso di angoscia che mi aveva lasciato addosso. Sicuramente è anche un lavoro che sta in piedi da solo: non sono le outtakes, qualcosa che non avevo inserito in un album del passato. E immagino anche, potenzialmente, il preludio per qualcosa che farò nel futuro. Tra un lavoro e un altro, c’è inevitabilmente una connessione. Quello che sto imparando ora, è che o per continuità, o per voglia di rifiutarlo, me lo porterò con me nel futuro.

Lo abbiamo detto più volte: è un album intimo, personale. È anche però un album in cui hai collaborato con diverse persone, in primis Marco Giudici, per gli arrangiamenti. Com’è stato aprire ad altri le porte di qualcosa di così introspettivo?
Ci sono diverse persone, sì, che hanno collaborato. Sono tutti amici prima che collaboratori, inevitabilmente ci ritroviamo a condividere, fare musica in modo unito e ravvicinato, anche se non per forza verbale. Per questo motivo, fare questa cosa con loro mi ha dato una sensazione di estrema familiarità e naturalezza, ed era qualcosa che per me era necessario fare.
Negli ultimi sette, otto anni, nel mio ultimo album e nel penultimo, ho lavorato alle mie cose in un modo abbastanza control freak. Con ansia da prestazione, quasi – e non che ci fosse una prestazione da mantenere. Dovevo dimostrarmi che questa cosa la sapevo fare, e penso sia stato giusto così, perché ho imparato molto. Ora era importante virare. Quella direzione lì mi faceva sentire ferma, e io avevo bisogno di andare altrove.
Tra i punti di novità c’è l’italiano. È la prima volta che lo affronti come Any Other, lo usavi in qualche inedito delle Lovecats. Hai sentito un certo tipo di vulnerabilità nell’utilizzarlo? Nel senso, stai cantando in una lingua che chiunque intorno a te capisce bene…
È inevitabilmente una questione in più. Mia mamma ad esempio non parla l’inglese! Allo stesso tempo, però, più che una preoccupazione rispetto alla percezione degli altri, è stato più interessante per me vedere come mi sentivo io nel dire qualcosa in una lingua che parlo tutti i giorni, con cui affronto i problemi con i miei amici. Ho sentito un ritorno al modo in cui mi esprimo nella mia quotidianità. Non saprei dire se più o meno vulnerabile: nei due brani in italiano parlo di cose estremamente delicate per me, era inevitabile che mi sentissi vulnerabile. Non so però se sia dovuto alla lingua.
All’estremo opposto, invece, c’è il giapponese.
Adesso sono quattro anni che lo studio. Sono arrivata a un livello intermedio, in quella zona dell’apprendimento di una lingua in cui inizi a esprimere le tue opinioni un po’ più profonde rispetto a “mi piace mangiare il risotto alla zucca”. Per questo, e anche per fattori più personali, è una lingua in cui ho iniziato ad esprimermi nell’ultimo anno abbondante della mia vita. Così come mi esprimo in italiano, in inglese, mi è venuta naturale la voglia di provare a scrivere in giapponese. Mi obbliga a organizzare il lavoro della scrittura in modo diverso, è un ulteriore stimolo, come lo è stato magari a volte suonare il pianoforte invece della chitarra.

Tornando al ritornello di “Distratta“: “in un giorno come questo il sole è un insulto alla tua assenza“. Una frase che hai scritto vedendo che c’era un raggio di sole che illuminava il posto dove stava la cuccia del cane che avevi perso da poco. Una frase che è quasi come voler rimanere dentro al lutto, per conoscerlo, viverlo e poi scriverne.
Nel pezzo c’è la perdita di un animale, ma anche di una persona. Sono passati molti anni, e in questi anni ho fatto molto fatica. Non è stato scrivere che mi ha aiutato, ma è successo il contrario. Confrontandomici, sbloccandomi, sono riuscita a scriverne. Scriverci un pezzo è stato un punto di arrivo, più che di passaggio.
Accanto ad Any Other artista, c’è anche un’Adele produttrice, penso ad esempio a Tutto Piange. Come ti senti ad essere arrivata a un punto in cui artisti più giovani cercano da te una guida, o almeno qualche spunto artistico?
A me collaborare con altre persone piace molto, è una parte molto grossa della mia vita musicale, che appunto non è solo Any Other e i miei progetti in senso stretto. C’è una grande fetta che riguarda lavorare con e per altre persone. Spero di continuare a farlo, perché mi permette di imparare molto, anche da persone che magari vengono da me a chiedere una mano. Posso vedere nuovi modi di approcciare la musica, ad esempio. Quando produco qualcuno, è necessario che io abbia un ruolo di guida. C’è sempre però uno scambio, non è mai un processo unilaterale.
Nei tuoi dischi però non c’è mai stato un featuring dichiarato. Ci sono molte collaborazioni, in diversi stadi della canzone – scrittura, produzione… – però mai un featuring vero e proprio.
Mi è capitato a parti inverse, spesso. Ho collaborato con altri, che mi hanno chiesto di mettere il featuring, ma dicevo di no. Per me il featuring è una collaborazione a livello di scrittura primordiale.
Per esempio come in “Mezzo mezzo“, coi Selton.
Esatto, lì stavo facendo la musicista. Non è un pezzo mio. Allo stesso modo, le collaborazioni sui miei pezzi. È un livello di scrittura secondo, che non è alla base. Mi fa un po’ strano, non ho mai pensato di fare un featuring di un pezzo mio. Mi viene più naturale pensare di creare una band con qualcuno, intavolare un discorso che sia un po’ più ampio e meno estemporaneo.
Parlando invece di Verona, dove entrambi siamo cresciuti: perché, secondo te, la scena musicale di Verona non prende piede al pari di altre città? Mancano i posti dove suonare?
Sì, secondo me sì. Non c’è una mancanza di persone che suonano, o di voglia di fare. Per vent’anni c’è stata una destra che ha soppresso ogni tipo di tentativo di creare e mantenere spazi culturali. Penso sempre a Interzona come caso palese di abominio culturale. I posti, quando ci sono, è faticoso mantenerli. E meno ce ne sono, più è difficile far crescere la cultura e creare aggregazione.
Negli anni ho conosciuto magari gente che suonava, ma faceva fatica a uscire da lì. Oppure penso ai C+C=Maxigross: Tobia vive in Sardegna. Suona a Verona, ma non vive lì. E come lui, tanti. Non c’è un problema radicato in Verona in sé. Ma se per tanti anni si fa la guerra agli spazi che cercano di tenere viva la scena musicale, poi è difficile che appaia per magia.
È da poco partito il tour, dove alternerai date con la band e date da sola. Come la stai vivendo?
Devo dire che è stata una cosa diversa dal solito. Fino allo scorso anno, ero molto in conflitto coi concerti da sola. Ho spesso la sensazione di non riuscire a restituire quello che vorrei, e invece con la band riesco. Quindi avevo smesso di farlo. L’estate scorsa, a Ferrara, ho suonato prima dei Blonde Redhead, e mi era piaciuto riarrangiare i pezzi da sola, mi ero sentita bene. Quindi quest’anno ho deciso di aprire questa possibilità, è un altro modo di veicolare il messaggio. Non ho più la sensazione di perdere quella cosa lì.
Senti, scusami se l’ultima domanda fa un po’ Chiara Ferragni che scrive una lettera alla Chiara Ferragni bambina. Mi ricordo i tempi in cui suonavi all’autogestione del liceo, e ora ti ritrovo qua con tre dischi e dieci anni di carriera. Faresti qualcosa di diverso?
Nonostante ci siano tante cose che a posteriori penso che avrei potuto evitare, comunque in cuor mio penso di aver mantenuto lo stesso focus che avevo dieci e più anni fa. Fare le cose finché mi fanno stare bene, nel modo in cui mi fanno stare bene. Questo per me è sempre stato il focus. Sono una persona molto privilegiata, faccio un lavoro che mi piace, mi permette di vivere senza essere frustrata nella mia vita, e riesco a farlo senza scendere a compromessi con cose che ritengo importante. Al netto di tutte le cose che sono sempre evitabili, sono contenta sia di aver suonato con le Lovecats alle assemblee del liceo, sia di essere qua ora.
Any Other 2025
12 aprile 2025 MODENA Vista 17 – SOLO SHOW16 aprile 2025 MILANO Volvo Studio10 maggio 2025 TORINO sPAZIO211- 19 maggio 2025 ROMA Unplugged in Monti – SOLO SHOW
- 07 giugno 2025 BORCA DI CADORE (BL) Teimat Fest
- 08 giugno 2025 BOLOGNA Express Festival Locomotiv / with The Hard Quartet – SOLO SHOW
- 20 giugno 2025 RIPE SAN GINESIO (MC) Borgofuturo – SOLO SHOW / with Daniel Norgren
- 27 giugno 2025 MENDRISIO (CH – Svizzera) Festa della Musica
- 05 luglio 2025 SANTORSO (VI) Ingrumà Festival
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.