Carneo: la normalità come soggettività, proteine e passione quotidiana

Il nome di un gruppo è a volte casualità, magna charta d’intenti, anatomia musicale. Per i Carneo è un erogazione funzionale ai binari con cui veicolano il loro messaggio. “Ciò che riguarda la carne” sia essa struttura, colore e consistenza: è un musica piena, ricca di polpa, senza fronzoli o sovrastrutture.

Carnale, passionale. La voce di Gianluca Farulla guida la mano dell’ascoltatore creando una tela e una bozza che ognuno è libero di ridipingere. L’intento di questa preliminare scrematura sistolica si applica alle sigarette, ai cocktail pretestuosi di Monti, alle Enjoy su cui ammirare le Parioline a San Lorenzo. Se è vero che ogni ventenne ha un piano confuso, una trama schedulata dalle strutture temporali che vive, i Carneo sono i tipici compagni di viaggio simpatici e che vorresti accanto a tavola. La loro musica, attuale e ancorata a coordinate geotemporali comuni, rumina e regala nuove semantiche. Trovare le parole, comprendersi meglio per leggersi dentro: la nostalgia diventa la Tua nostalgia, le Luci diventano le Tue luci, gli Attimi i Tuoi attimi.

È la musica in modalità adaptive, piacevole, spontanea. Basi curate e maliziosamente evocative, testi che richiamano ad una corrente urban così cara ai cantautori italiani ante80. Curiosamente, Carneo è stato pittore veneto “…apprezzato per il naturale cromatismo, per la mescolanza di modelli figurativi veristici e di gusti rustici, per la pennellata vorticosa e l’estro fantasioso...”. Beh, abbiamo fatto quattro chiacchere con loro.

Senza indugi… perché non siete l’ennesimo gruppo indie romano?

Parlare di ennesimo gruppo romano ci risulta un po’ difficile, alla fine siamo solo persone a cui piace fare musica e fare le cose per bene. La differenza con gli altri forse sta nel voler comunicare qualcosa di personale, di intimo, senza dover comunicare nulla in modo forzato soltanto per affacciarci e compiacere la scena musicale.

Come nasce la vostra musica? Influenze, sogni, ostacoli.

La nostra musica nasce per necessità. Abbiamo sempre pensato ai nostri strumenti, testi e canzoni come un estensione di noi stessi. Non è stata tanto la musica a spingerci a suonare quanto il bisogno di comunicare, di fare in modo che la nostra musica possa appartenere in qualche modo un po’ a tutti. I grandi gruppi del passato, soprattutto degli anni 70/80 ci hanno sempre affascinato, e ci piace molto l’idea di mescolare insieme qualcosa di quelle sonorità ed espressioni con sound più moderni. La musica forse è piena più di ostacoli che di note, ma sono ostacoli che puntano tutti alla crescita di un musicista e il saperli superare differenzia poi chi fa il salto di qualità e chi no.

Nell’evoluzione musicale romana, voi come vi collocate? Roma che musica proporrà nei prossimi mesi?

Il panorama musicale romano sembra un sorta di quieto divenire. I locali sono sempre gli stessi e i nomi anche. C’è così tanta frenesia che alla fine si crea un’illusione di progresso e dinamismo, ma la verità è che risulta tutto abbastanza statico alla fine. In una situazione così, dove i musicisti sono tanti è difficile emergere perché quando si è così tanti a provarci la differenza alla fine la fanno i soldi e le conoscenze. Noi speriamo in una Roma che proponga novità e contesti dove le persone decidono di andare lì per ascoltare cose nuove, e non necessariamente amici o conoscenti. Per dirla forse in modo più semplice speriamo in una riscoperta da parte delle persone di una pura curiosità musicale.

Parlate di vita vera nelle vostre canzoni, di attimi di assoluta quotidianità. Essere normali è così difficile?

Definire in qualche modo la normalità non è facile. La normalità è soggettività, è espressione di individui che provano emozioni diverse pur guardando la stessa cosa, noi cerchiamo solo di raccontare la quotidianità, le piccole cose di tutti i giorni in un modo che chi ci ascolta possa riconoscersi e ritrovare nelle nostre parole la sua normalità.

La vostra musica è un piccolo micromondo. Essere cittadini del mondo può spaventare. Come vi rapportate alla distanza, fisica ed emotiva?

La lontananza fisica si supera senza dubbio. È quando si crea la distanza emotiva e ci si sente lontani anche stando vicini che allora vincolo le distanze. Nel micromondo che troviamo nella musica però non esistono distanze, la musica da sempre è stato un elemento di incontro e condivisone tra culture diverse. Se in una melodia o in una frase di un pezzo ci si ritrova a prescindere dalle differenze dei nostri micromondi singolari, la distanza è allora vinta.

La nostalgia. Le vostre canzoni, cosi 201X, un giorno non saranno un terribile boomerang di ricordi?

Non crediamo abbia senso parlare di ricordi, almeno per il momento. Si è vero ogni canzone in un certo senso racchiude in sè le emozioni di determinate situazione passate e vissute, ma ancorare troppo una canzone a un certo momento o a un certo ricordo può diventare dannoso sia personalmente, che musicalmente. Una canzone deve riuscire a trasmettere sensazioni sempre nuove e avere la capacità di adattarsi a situazioni sempre diverse, altrimenti risulterebbe come una fotografia.

Una città che vi piacerebbe visitare. Chi vorreste come compagni di viaggio per una sessione live?

Una città in particolare non c’è. Il nostro sogno è quello di riuscire a girare tutta l’Italia e far conoscere la nostra musica ovunque e magari condividere il palco con qualche grande artista. È sicuramente presto per pensare a grandi collaborazioni, abbiamo ancora molta strada da fare e tante cose da imparare. Ovviamente ci sono tanti artisti che seguiamo e con i quali un giorno ci piacerebbe collaborare e divertirci sia sul palco che fuori. Uno tra questi sicuramente del panorama musicale attuale è Franco126. Scrivere un pezzo con lui, mescolare il nostro modo di suonare con il suo modo di cantare e soprattutto di scrivere, di raccontare la quotidianità ci piacerebbe molto.

I live. Dalla cameretta al pubblico. Transizione naturale o ansiogena?

I live sono sicuramente il momento più intenso e passionale per un musicista. Noi Carneo li viviamo con molta naturalezza e spontaneità. È più tutta la parte del pre concerto, come il fare le prove e organizzare i vari set che ci carica di tensione, ma quando saliamo sul palco è come dimenticarsi di tutto il resto. Viviamo per questo in fin dei conti, è il culmine di tutta una serie di desideri, aspettative ed emozioni indescrivibili. È come mettersi alla prova ogni volta per la prima volta e questo è alla base di ogni esibizione, l’emozionarsi per poter far emozionare. L’unico lato negativo di un live è che purtroppo prima o poi deve finire.

Progetti futuri. Come vi vedete tra 10 anni?

Riuscire a vedere i Carneo da qui a 10 anni ci risulta parecchio complicato. Cerchiamo di andare avanti sempre un passo alla volta, canzone dopo canzone pensando più al presente che a quello che verrà. Per il momento pensiamo solo a scrivere e a suonare il più possibile prima di dedicarci alla realizzazione del nostro primo album.

Carneo come il pittore, vero? Ditemi di si.

Abbiamo scelto il nome del gruppo cercando nel mondo dell’arte qualcosa che ci potesse rappresentare, tra una serie di nomi di opere e nomi di artisti trovammo per caso il nome di questo pittore: Antonio Carneo. Ci colpì l’ambivalenza di questo nome che è in realtà anche un aggettivo, che sta ad indicare ciò che appartiene alla carne, al carnale, al passionale.

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