“Le macchine non possono pregare”, Anastasio per fortuna sì

Nel rap che oggi domina le classifiche italiane, fatto di autocelebrazione e frasi riciclate, o forse sul confine, proprio sulla soglia tra il dentro e il fuori, c’è chi si ostina a portare avanti un’altra voce. Una voce che pensa, che dubita, che osserva, e che ha il coraggio di dire: “Io non sono questo, io voglio raccontare altro”. Quella voce è Anastasio.

Classe 1997, vincitore di X Factor ma sfuggito fin da subito a ogni etichetta, Anastasio ha appena pubblicato un nuovo album che definisce “un’opera rap”, una sorta di poema epico contemporaneo, in bilico tra distopia tecnologica e misticismo ribelle, dove Baudelaire incontra Blade Runner, e i cyborg non solo sognano, ma tentano perfino di pregare.

Quest’album non è solo un progetto musicale, ma un grido poetico, filosofico, perfino spirituale.

In un mondo in cui “l’uomo si trasforma in macchina” e la “ripetizione” è la nuova tirannia, Anastasio scardina ogni automatismo, riportando la parola al centro, la coscienza al microfono. I suoi testi sono affreschi oscuri e luminosi, pieni di domande e visioni, unici nel panorama attuale per forza immaginativa e profondità analitica. Perché, come ci ricorda lui stesso, fare critica non vuol dire urlare contro il sistema a caso. Vuol dire guardare in faccia ciò che ci circonda, capire come agisce, e poi – magari – scardinarlo.

In questi brani si combattono battaglie contro il tempo, la memoria, il potere che si fa algoritmo. Ma c’è anche la fame viva del poeta, la rabbia del ribelle, la nostalgia per un’umanità primitiva, imperfetta e sacra.

Anastasio non ama spiegarsi a parole, preferisce l’immaginazione che urla nei suoi versi. Ma in questo incontro, proviamo a sciogliere i nodi, a decifrare le visioni. Perché forse, in fondo, è ancora possibile rinascere — nudi, vulnerabili, vivi.

Anastasio – Le macchine non possono pregare [ascolta qui]
Hai definito il tuo album un’opera rap, un’epopea scritta in totale libertà. Ti chiedo: che tipo di responsabilità – o, se vogliamo, che tipo di liberazione – comporta il raccontare una storia in un mondo che spesso predilige l’immediatezza del singolo?

Non lo so. Ho fatto questa cosa perché mi sembrava l’unica da fare, l’unica che volessi davvero fare. È chiaro che esistono altre forme che, con meno sforzo, danno risultati uguali, se non migliori.
Però io credo che un disco del genere ci volesse. Io avrei voluto ascoltare questo disco, e quindi l’ho fatto.

Molti testi dell’album sembrano suggerire una trasformazione dell’uomo in macchina, una perdita di spirito critico – come lascia intendere anche il titolo stesso dell’album. Ti chiedo allora: credi che l’intelligenza artificiale rappresenti oggi un’estensione delle nostre capacità o una minaccia al nostro senso di umanità?

Penso che sia uno strumento talmente rivoluzionario che ci metteremo un po’ ad abituarci. Non ci siamo nemmeno ancora abituati agli strumenti precedenti. E in qualche modo è entrambe le cose che hai detto: è utilissima, ma al contempo ci mette di fronte a un dilemma. Ci chiede cos’è la vita, cosa possiamo rifare, qual è la nostra prerogativa. Ormai una macchina può scrivere una poesia, dipingere un quadro, comporre una canzone. Forse all’uomo è rimasto solo il “sentire”. Le macchine, infatti, non possono sentire. Né possono pregare.

Nel tuo percorso artistico hai mai percepito il rischio di diventare ciò che critichi nei tuoi testi? Un uomo che si adatta, che si conforma per funzionare meglio? Come hai resistito a questa pressione?

Sì, questo rischio l’ho sentito e corso spesso. Ma mi sono reso conto che ho una sola strada davanti, non tante. Non mi trovo di fronte a grandi dilemmi: io volevo fare questo disco per stare bene. Il fatto che io scompaia per anni e poi ritorni non è una strategia calcolata. È semplicemente così.

È dal 2020 che lavoro su questo disco, sono cinque anni. Non è un ripiego. Non ho scelto la via difficile per sembrare coraggioso. Ho fatto l’unica scelta possibile per me. L’unica scelta che può fare un artista, in fondo. Il problema è che ci siamo disabituati a tutto questo. Abbiamo perso familiarità con l’idea che per fare le cose bene ci voglia tempo. Per scrivere e raccontare, bisogna vivere. Se resti imprigionato in un circolo vizioso, non trovi mai il tempo per vivere… e quindi non hai nulla da raccontare.

Anastasio disco
Anastasio
Hai detto che questo album renderebbe fiero il ragazzino che eri. Che sogni avevi da bambino? E cosa significa oggi restare fedele a quel bambino?

Da bambino sognavo di fare tante cose. Volevo fare lo scienziato. Mi sono laureato in agraria, che è comunque una facoltà scientifica. Intanto ascoltavo rap. Era ciò che mi dava più emozioni forti. A un certo punto ho iniziato a farlo. E avevo una specie di filosofia: raccontare una storia, partire da un’idea.
Sognavo di fare un’opera rap, un concept album, come avevano fatto i cantautori. Nel rap è stato fatto pochissime volte. Ecco, il sogno era questo: riuscire a diventare un album del genere. Non questo o quell’album, ma diventare proprio un album del genere.

Oltre alla musica, chi sei quando scendi dal palco? In cosa ti immergi?

Faccio tante cose, per lo più passeggio. C’è mio cugino che ha un pezzo di terra e ogni tanto lo vado ad aiutare: mettiamo due piante, annaffiamo, facciamo dei lavoretti. Mi piace. Penso che, in fondo, mi vedevo con una certa normalità, con un certo sogno di pensione anticipata. Anche gli artisti, insomma, hanno questo sogno della pensione anticipata. Anzi, più che pensione anticipata, è proprio quella sensazione che la gente sogna per i sessant’anni: io la sogno già adesso.

Mi fa bene il contatto con la natura, mi fa bene staccare, mi fa bene vedere i frutti del proprio lavoro. Perché te li dà la terra, non te li dà una busta paga. È un rapporto diretto con la vita, in qualche maniera, con la realtà. Quando vivi immerso nella città, nella civiltà in generale, ti accorgi che quella è l’unica vera cosa contro natura. Se ci vivi troppo immerso, poi ti dimentichi che esisteva una realtà ben diversa. Io mi ci rivedo completamente.

Nei brani come Il “Cyber-Ciclope” o “Madre Elettrica“, la tecnologia assume sembianze mitologiche, quasi religiose. Ti confesso che quel pezzo – quello che sembra quasi una preghiera – mi incupisce molto. Ma allo stesso tempo mi affascina. Ti chiedo quindi: cosa ti ha spinto a mitizzare la tecnologia in quel brano? È una critica? Un tentativo di comprensione, anche spirituale?

Sì, direi che è molto simile alla satira. È chiaramente un’esagerazione voluta. E poi quei personaggi che cantano questa specie di messa sono dei “cattivi”, all’interno della storia. Spesso, nell’album, a parlare sono i cattivi. Questo è uno di quei casi. Sono personaggi inattivi. Poi sta a voi decidere che giudizio dargli. Ma non è il mio punto di vista: è il loro. È un punto di vista narrativo.

Anastasio
Molti brani fanno riferimento al tempo, al “mondo di domani”, al futuro. Che cos’è per te il tempo, oggi? Un nemico? Un meccanismo da cui fuggire? Un’illusione?

Il tempo dell’orologio è quello da cui bisogna fuggire. Il tempo incatenato, il tempo degli orari, degli appuntamenti, della ripetizione, degli ingranaggi. E poi c’è un altro tipo di tempo, che è quello che bisogna cercare: il tempo naturale, il tempo non misurato.

In una canzone racconti la nostalgia per un istinto perduto e la lotta con l’educazione alla modernità. Ti chiedo: quanto ti sei sentito davvero “rieducato” nel tuo percorso? In che senso, se c’è, hai disimparato qualcosa?

Paradossalmente, scrivendo questo disco, non so se ho disimparato qualcosa. Ma per la prima volta ho raggiunto una piena consapevolezza, una visione d’insieme completa su un lavoro. L’ho curato praticamente tutto io: dai testi al concept, fino alle produzioni. In realtà non ero solo: c’erano persone che mi hanno aiutato, ma erano amici. Ero un po’ il capo della situazione, prendevo io le decisioni. Questa cosa mi ha fatto bene, mi ha fatto capire quali sono le mie reali capacità. Ed è qualcosa che non voglio più abbandonare. Questo controllo totale prima non c’era sempre stato.

Il disco è pieno di immagini apocalittiche, ma anche di un certo senso di rinascita. Ti chiedo allora: qual è la tua idea di salvezza? C’è una via, secondo te, in un mondo che va a fuoco?

Non lo so. Purtroppo non ho questa risposta. Posso dirti qual è la mia via. Io credo che gran parte della nostra sofferenza derivi dal fatto che l’uomo, come specie – Homo sapiens – vive di finzioni. I soldi sono una finzione. La civiltà è una finzione. I nostri valori sono una finzione. Sono tutti concetti che abbiamo inventato noi: pratici, certo, ci aiutano a coalizzarci, a organizzarci. Ma non si può vivere solo di finzione. Da qualche parte bisogna pur trovare la realtà. Sarò banale, ma io la trovo sotto un albero. È come se, a un certo punto, dovessi dimenticare tutto: la società, questa ragnatela di bugie – anzi no, non bugie, ma finzioni.

Siamo fatti per essere animali. Siamo animali. E allora ricordiamocelo.

tour anastasio
Anastasio in tour

Questi gli appuntamenti in programma in autunno:

  • 16 ottobre 2025              Roma                                 Monk Club                       
  • 17 ottobre 2025              Bologna                             Locomotiv Club               
  • 18 ottobre 2025              Firenze                              Viper Theatre
  • 23 ottobre 2025              Modugno (BA)                  Demodè Club
  • 24 ottobre 2025              Perugia                             Urban Club
  • 25 ottobre 2025              Napoli                                Teatro Bolivar
  • 29 ottobre 2025              Torino                                Off Topic
  • 30 ottobre 2025              Milano                               Santeria

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