Massimo Silverio: arrangiarsi con quello che si ha, tra la Carnia e l’Europa
La prima volta che ascoltai Massimo Silverio, ne rimasi folgorato. Poco dopo, scoprii di non essere stato l’unico. Capitò anche a Iggy Pop, che durante il suo programma radio Slow Sunday decise di trasmettere il brano Nijò.
Massimo Silverio viene da Cercivento, un paese di poco più di seicento abitanti, nelle Alpi Carniche. E proprio il carnico è la lingua delle sue canzoni, raccolte nell’album d’esordio Hrudja. Sono brani che si prestano a una doppia chiave di lettura: lirica, per chi conosce la lingua, e fonetica, per chi non la sa decifrare, ma ne percepisce i suoni. I brani di Massimo Silverio sono rarefatti, fluviali, montani. Non sono però mai austeri o inaccessibili.
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui, parlando del Friuli, di Pasolini, dell’importanza dei suoni e di strumenti musicale della tradizione balcanica.

Poco più di un anno fa, Iggy Pop, durante il suo programma “Slow Sunday“, ha passato un tuo pezzo. Come gli è arrivato?
È stata la prima operazione che abbiamo fatto con l’ufficio stampa. Era il primo singolo, Nijò, e prima che venisse rilasciato, la ragazza dell’ufficio stampa ci disse che aveva questo contatto. Decise di mandargli il pezzo, ma senza nessuna aspettativa. Nel programma c’è una preselezione, e poi se il brano supera, è sottoposto all’ascolto di Iggy Pop. Era una magra speranza, anche considerando il fatto che all’epoca io arrivavo dal nulla. Non ero conosciuto, non avevo un gran bacino d’utenza. Era un po’ un salto nel vuoto, come operazione. Poi però è successo, ed è stato bellissimo. Tra l’altro, non sono ha trasmesso il pezzo in radio, ma l’ha anche pubblicizzato sul suo profilo Instagram. Insomma, una cosa bellissima.
Il pezzo in questione era “Nijò“. Una parola che diceva tuo nonno…
Sì, è una parola del friulano, che oggi però non si usa più tra i miei coetanei. Io l’ho imparata ascoltandola da mio nonno, sì.
Proprio Iggy Pop, tra l’altro, durante la trasmissione, ha citato Pasolini. Al di là di Iggy Pop, quando si pensa al Friuli e alla storia letteraria che ha attraversato negli anni la regione, è impossibile non pensarci. Quanto ha influenzato la tua ricerca e la tua formazione artistica?
Sono sempre stato un grande amante di Pasolini. L’ho conosciuto quando andavo alle medie. Andavo a scuola in un altro paese, e quando c’erano i rientri al pomeriggio dovevo guadare un fiume. Un giorno, mentre lo stavo guadando, ho trovato Il sogno di una cosa di Pasolini, il libro, in mezzo ai sassi. Il romanzo parla di alcuni ragazzi che abbandonano il Friuli per inseguire i loro sogni. Tra di noi, era un tema molto sentito. Già allora si pensava che la Carnia è bella, ma è chiusa, chissà com’è il mondo fuori. Aver letto quel romanzo in quel momento mi ha spinto a inseguire i miei sogni.
Da lì, poi, ho continuato a leggere i suoi libri e le sue poesie, e soprattutto a guardare i suoi film – il cinema è una delle cose che mi ispira di più quando faccio musica. Sono arrivato però tardi alle sue poesie in friulano. C’è una sua raccolta in friulano, La nuova gioventù, che ho reperito con difficoltà. Non è così difficile da trovare, ma sto cercando di comprare solo libri di seconda mano… Comunque sì, in generale il pensiero, le immagini e la visione poetica di Pasolini mi hanno sempre ispirato.

Pasolini però viveva a Casarsa, che è un posto ben diverso geograficamente e morfologicamente da Cercivento, nel mezzo delle Alpi carniche. Però comunque in qualche modo sono tenuti insieme dall’immaginario del Friuli…
Credo che ci sia una certa idea di unità in chi abita questi posti. Non ci sono luoghi del Friuli dove io vada e non mi senta a casa. È come se fosse stato tutto scritto dalle persone, inciso da tutto quello che arriva da chi abita questi posti. Quando cresci in Carnia, sei abituato a spostarti sempre per fare le cose, andare nei luoghi. Già dopo mezz’ora di macchina inizia la zona collinare e la pianura, un’altra mezz’ora e sei già al mare o sulle montagne altissime.
Già da piccolo, mi ricordo che per fare qualunque cosa dovevo spostarmi e affrontare un cambiamento paesaggistico. E questa è una delle meraviglie del Friuli, un altro dei motivi per cui io non vorrei vivere altrove. La campagna di Pasolini non l’ho mai vissuta come Pasolini, ma l’ho sempre sentita in modo viscerale, come se fosse già stata scritta dentro di me, forse da esperienze o vite passate. Secondo me c’è un’unità all’interno di tutti i friulani, che riescono a vivere in maniera interiore tutti questi luoghi.
Ultima domanda sul Friuli, poi andiamo al disco. Il Friuli è una terra di confine, quasi di mezzo, liminale, che però non diventa un non-luogo, una meta di transizione, ma ha un’identità culturale e non solo ben definita. Cosa spinge chi passa dal Friuli a viverci, a creare, a rimanere?
Ma sai, io ho iniziato a chiedermi cosa potrebbe significare vivere in una grande città, a Milano per esempio. A livello di interscambi con musicisti, con chi fa musica, è sicuramente più facile. Entrare nel calderone, guardare, imparare dagli altri. Uno dei più grandi problemi del Friuli è che qua non esistono grandi festival di musica, non esistono i club che fanno passare la musica che ora si suona in Italia, in Europa, nel mondo. Si è molto tagliati fuori. Il Friuli è molto selvaggio. La Carnia non è lontanissima da Udine, ad esempio, ma è un luogo molto remoto.
Quando abiti nel selvatico, nell’assenza più completa, ti stimoli. Con gli scambi naturali, con lo scambio umano più base. Io giravo con la squadra di calcio del mio paese prima di spostarmi a Udine, non avevo una compagnia di amici musicisti. C’è una grande alternanza nei contatti hai con le persone. E questo ti permette di avere delle enormi aperture, anche dal punto di vista più spirituale. Conosco anche tante persone che sono arrivate in Carnia o in Friuli da fuori: se vuoi vivere una vita più rivolta verso l’interno, per poi rivolgere lo sguardo interiore verso l’esterno che ti circonda, qua puoi ancora farlo. E sicuramente può aiutare tante persone.

Passiamo al tuo album, “Hrudja“. Il titolo è l’antenato di un termine longobardo, “Grusa”, che indica la crosta sopra una ferita. A cosa è dovuto, cosa rappresenta?
Alcune di queste canzoni sono molto vecchie, premettiamo questo. È molto difficile però trovare un’utenza vivendo in Friuli, o anche pensare di andare a suonare fuori regione. Sono brani molto viscerali, molto personali, anche se provo a portarli fuori in maniera più astratta possibile. Quando ho scritto queste canzoni, quando ne ho sentito l’urgenza, volevo lasciare andare dei sentimenti. Quando abbiamo deciso di registrare il disco (parlo al plurale perché l’ho deciso assieme a Nicholas Remondino, il batterista che suona con me nel disco), io ero a un punto di saturazione: la musica è bellissima, ma anche una ferita. Mi piace l’idea di guadagnare con la musica il minimo per vivere decentemente. Prima di Hrudja, la musica per me era questa ferita, che però mi dava moltissimo. L’immagine della crosta è la ferita che si rimargina, non è aperta.
Però alla fine, prima di far uscire l’album, mi rendevo conto che se non fosse andata avrei dovuto trovare una quadra e capire come affrontare la vita quotidiana. Ho lavorato a questo disco quando avevo già trent’anni, ci sono arrivato con tutte le crisi della vita. L’immagine della ferita racchiude questo, e comunque era sì, un ultimo tentativo per provare a far girare questa musica.
Hai detto che alcuni dei brani del disco sono stati scritti molto tempo fa: la scelta di rilasciare l’album proprio ora è in parte dovuta al fatto che artisti come Daniela Pes o, ancora prima, Iosonouncane, hanno contribuito a diffondere un tipo di musica più fonetica che verbale?
Sono sicuramente grato a tutte le contingenze che si sono presentate. Alla fine, mentre stavo registrando Hrudja, tra le tante domande che ci ponevamo c’era anche quella se prendere solo le canzoni scritte in carnico (con un paio di pezzi in inglese e uno misto), che era una decisione forte e, a posteriori, una scelta un po’ azzardata. A disco finito, non era ancora uscito SPIRA di Daniela Pes, avevo paura. Ma ce l’avevo anche quando è uscito SPIRA.
Mi chiedevo se un disco in carnico potesse arrivare o meno. È un argomento molto profondo. Se quest’attenzione è tornata a galla, è perché c’è bisogno di nuovi suoni, di guardare un po’ alle radici per capire la tua posizione nel mondo, la tua centratura, e da lì cercare un linguaggio il più sincero possibile. Spero che da adesso in poi ci sia sempre più musica che guardi quello che è casa prima di guardare al mondo.

Citavi anche prima i pezzi in inglese del disco, “Algo” e “Piel”. Riflettevo sul fatto che passi da una prossimità linguistica estrema a una lingua che invece spesso si utilizza per verbalizzare le cose in una lingua che non è madre, quindi l’opposto…
È stato quasi un gioco. Quei pezzi sono nati perché, come tutti, sono cresciuto ascoltando tanta musica in inglese. Inizi a cantare in inglese maccheronico, poi impari la lingua e ne cogli il significato… Tanti sono cresciuti con i timbri dell’inglese. Era anche un gioco questa mia volontà di inserire brani in inglesi e metterli vicini a quelle in carnico. In Colâ, ho inserito delle rime inglese-carnico.
L’inglese alla fine è la lingua più cantata, almeno in Europa, e io volevo fare questo parallelo mostrando che l’inglese è musicale, ma lo è anche una lingua minoritaria come il carnico. Ho provato a metterle vicine, a intrecciarle. Io attualmente preferisco quando canto in carnico. Volevo mostrare che la musicalità della lingua è relativa. È stato un gioco, accompagnato dalla volontà di guardare fuori dall’Italia e cercare di arrivare a più persone possibile.
Dal punto di vista del sound, in “Hrudja” ci sono strumenti “suonati” classici, c’è l’elettronica, ci sono perfino alcuni strumenti tipici della tradizione carnica, come la guzla. Da quale ricerca sei partito?
Sono partito da una caratteristica dello spirito friulano: arrangiarsi con quello che si ha. Io non sono un polistrumentista, già definirmi musicista è un azzardo per me. La guzla, ad esempio, è uno strumento di origine serba. Qua è facile trovarne in giro per le case: il Friuli è una terra di confine, in mezz’ora da Udine sei in Slovenia, dove la guzla è molto utilizzata. Qua invece è utilizzata più come souvenir, lo compri quando viaggi e poi lo tieni in casa. Io ne avevo una, l’ho sistemata e ho deciso di suonarla, perché sono molto attratto da quei suoni acustici. Io arrivo da una formazione molto tradizionale. Anche il violoncello, ad esempio, lo suono per passione, non ho mai preso lezioni, l’ho sempre vissuto in modo molto spontaneo, come anche il canto friulano.
Alla fine, l’album è una bella fusione di tutto quello che ho ascoltato. Ho sentito una chiamata verso forme musicali più antiche, però ascolto anche molta musica contemporanea, come si vede dall’elettronica. Ci siamo arrangiati con quello che c’era, e abbiamo cercato di creare la giusta ambientazione per queste canzoni che si muovono un po’ al di fuori del tempo. In fase di registrazione di Hrudja, ho ascoltato molto un disco, Laughing stock dei Talk Talk. Però non ci sono state decisioni consce di andare in qualche direzione specifica sulla base di altri ascolti. Abbiamo deciso di andare dove ci portavano i testi, e di fare dal punto di vista musicale qualcosa che fosse il più sincero possibile.
Dopo “Hrudja“, arriverà un altro disco così radicato nelle Alpi Carniche? O stai esplorando qualcosa di diverso?
Non lo so. Sto cercando di lavorare molto sul presente. Per me c’è ancora tanto da dire e da esplorare nel carnico, di questo sono sicuro. È a tutti gli effetti la mia prima lingua, la parlo quotidianamente, penso anche in carnico. C’è ancora tanto da esplorare in questo senso. Però non voglio mettermi limiti, non so come andrà e dove andrò in futuro, se ci saranno altre chiamate o altre urgenze che vorrò inseguire.
Ci sono musicisti in Friuli che cantano in friulano, ma come tutte le lingue minoritarie c’è talmente tanta varietà, talmente tanto divario tra le generazioni, che alla fine la lingua cambia, si evolve, molte parole non si usano più. Io sono innamorato della parola in tutte le sue forme, e nel mio piccolo sento di voler dare ancora un po’ di vita a certe parole. Utilizzarle ancora, far in modo che certi suoni non periscano, non cadano nell’oblio del tempo. Sicuramente lavorerò ancora sul carnico, ma ecco, sono aperto a tutto. Non so cosa capiterà: la musica per me continua a essere un linguaggio universale, come lo è per molti. Cerco di vivere il presente, seguire le idee e le illuminazioni che possano arrivare.
Filippo Colombo
Predico bene razzolando insomma, mi piace mangiare la pizza a colazione, odio i concerti dove si sta seduti.