Ci sono band che a un certo punto smettono di fare musica, e magari qualche anno più tardi fanno una reunion-evento per fan nostalgici. O in altri casi, svaniscono per sempre. Ci sono band che invece continuano a fare musica, ma l’estro creativo diminuisce disco dopo disco. Faticano a rimanere al passo con i tempi, non colgono l’evoluzione dei linguaggi, e si ritrovano a parlare a una generazione di mezzo che nemmeno esiste. E poi ci sono band che continuano ad avere qualcosa da dire, e a sapere come dirlo. Come i Ministri, che con Aurora popolare sono arrivati al settimo album in studio.
Le sonorità rock sono quelle di sempre, ma i disagi, le circostanze raccontate hanno saputo evolversi.
È un disco che parla di collettività finita, di utopia ormai irraggiungibile, dei luoghi di aggregazione popolare che diventano sempre di meno. Federico, Divi e Michele hanno accompagnato queste nuove riflessioni con i riff nervosi di sempre. E non è un caso che alla presentazione dell’album alla Santeria Toscana di Milano, dove la band ha suonato qualche nuovo brano in acustico, ci fosse il tutto esaurito, che spaziava tra tutte le età. Chi c’era dal primo disco, e chi ha imparato a conoscerli e a riconoscersi nel tempo. E al banchetto del merch, dove si poteva acquistare il nuovo vinile, c’era una fila che manco Fernanda Number Six. E non è mica una cosa da poco.
A qualche ora dalla pubblicazione di Aurora popolare, li abbiamo raggiunti per riflettere sul perché questa collettività sta svanendo, su come la musica che gira intorno a loro si è evoluta nei vent’anni di carriera, e su qual è il segreto per non lasciarsi dopo tutto questo tempo.

“Aurora popolare” nasce dalla consapevolezza che un certo tipo di collettività e di utopia è finita. Da dove viene quest’idea?
Federico: l’idea del disco viene un po’ ex post. Guardando tutto il materiale registrato e provinato, ci siamo accorti che parlava effettivamente di tutta questa perdita della collettività. Aurora popolare (il cui nome proviene dal nome reale di una persona che la band ha incontrato, come hanno raccontato in Santeria, ndr), la title track, lo affronta in un certo modo; altri brani dell’album, in un altro.
Per raccontare qualcosa di diverso dalle altre interviste: trovo che ci siano stati dei destini tecnologici in quello che stiamo attraversando, che giocoforza hanno dissolto la comunità. Ad esempio, i telefoni. Tanta gente ci ha marciato sopra, approfittandone. Prima di tutto, però, deriva un po’ da qua. Queste cose ci stanno allontanando, stanno diventando una questione politica, e non se ne parla abbastanza. È una dipendenza che tutti affrontiamo, stiamo puntando tutti su quello. Anche i servizi sociali e lo stato stanno puntando tutto sui telefoni. In questo scenario, è difficile riunirsi, è difficile creare una collettività.
Mi aggancio a questo tema, e riprendo il brano che dà il titolo al disco. Cantate, con disillusione “sei corso dietro a un cantante“ – come se fosse una cosa che non si fa più. Andare ai concerti dovrebbe essere un momento di collettività, però spesso diventa un momento in cui si sta sempre al telefono. Rimane però il fatto che i concerti dovrebbero essere un’utopia possibile e realizzabile. Avete visto un’evoluzione nel rapporto tra pubblico e telefoni, ai vostri concerti?
Federico: la musica rimane uno dei pochi collanti che fa uscire le persone e le fa trovare insieme. Però c’è un problema delle persone nel rapportarsi con le proprio emozioni e le sensazioni. Tant’è che nel massimo momento della loro emozione, hanno bisogno del filtro del telefono davanti. Vai ai concerti per il brano che ami, per l’artista che ami. E poi lo guardi dallo schermo del telefono con cui stai riprendendo quel ricordo. È una fatica nel sentire, oggi, che attraversano tutti.
Divi: è uno strano fenomeno che si associa alla FOMO, il voler possedere i propri ricordi. Vogliamo archiviarli, mettere un lucchetto sui momenti, che però non stiamo davvero vivendo. E finisci per raccontare più cose di quelle che stai effettivamente vivendo. I live li abbiamo visti cambiare, ma quello che è cambiato è il modo di farli da parte di chi li organizza. Se fai solo eventi che devono essere memorabili, dove devi coltivare il fatto di esserci stato, non stai coltivando una collettività. Non stai educando la gente a partecipare.
Michele: noi andremo in tour, e vogliamo creare la situazione per cui non siamo noi sul palco, ma siamo tutti insieme parte di qualcosa.
È vero che ultimamente tanti festival, tanti concerti stanno diventando solo una quesitone di hype, vogliono crearti FOMO così ci vai più per l’ansia che per altro. Come si fa a far tornare i concerti a essere un momento di vera collettività?
Divi: credo che la responsabilità sia anche degli artisti che hanno lasciato carta bianca a chi gestisce i concerti. È chiaro che le società che li organizzano inseguano il profitto, sono imprese. Noi artisti siamo sempre stati quella voce in capitolo che poteva ridiscutere le regole del gioco, che poteva imporsi, tanto sulla parte discografica, quanto in quella dei live.
Oggi la parte volitiva dell’artista è addormentata, e gli eventi vengono gestiti da chi ha come unico fine il guadagno. E non è che in questo modo l’artista guadagna di più, anzi, suona di meno, si esprime meno. Non avvantaggia l’artista. E si genera un’educazione all’ascolto sbagliata. I concerti diventano riproduzione di quello che è già registrato sulle piattaforme, gli utenti vogliono andare a sentire il pezzo esattamente così com’è. Noi artisti dovremmo prendere coscienza del fatto che possiamo lamentarci, ma non stiamo facendo niente a riguardo. Dovremmo trovare delle alternative.
Michele: il concerto dovrebbe essere vivo, imperfetto nell’esecuzione. Noi abbiamo sempre provato a essere il più vivi possibili nel palco.
Il nuovo album rimane molto rock, nelle sonorità. Molte rock band si attenuano, con gli anni, e a volte scherzo pensando che è più si invecchia, più c’è bisogno delle ballad per riprendere fiato al concerto. E quindi mi viene da chiedervi, quanto questo disco è stato scritto con l’idea di quando sarebbe stato suonato dal vivo.
Federico: è stato scritto pensando di non aver bisogno di sovrastrutture, e di poterlo sostenere in tre sulle nostre spalle, anche senza il nostro “quarto ministro”. Il mini EP live uscito lo scorso anno era in trio, perché così nasciamo. C’è stata questa volontà. Poi ci sono anche delle ballate, che sono molto elettriche. È il nostro modo di fare ballata.
Il secondo brano del disco si chiama “Piangere al lavoro“. È un inno a non prendersi troppo sul serio, e a piangere solo per quello per cui vale la pena davvero piangere?
Federico: se una parte così importante della nostra vita, la passiamo a lavorare, non possiamo passare quella parte della vita a piangere. È un piangere da burnout. Oggi c’è un livello di aziendalismo che è folle. Ci sono persone che dedicano dodici ore di vita a una multinazionale. Noi magari ci mettiamo dodici ore in quello che facciamo, ma è perché stiamo dando vita a una nostra creatura e non ci piangeremmo mai. In quel pianto lì, che è vero, a volte arriva solo per nervosismi del momento, è sostanziale per le nostre esistenze.

Sono ormai più di vent’anni che suonate. Se pensate all’evoluzione della musica underground italiana in questi anni, cosa vi viene in mente come grande cambiamento? Di recente, ad esempio, ho sentito Levante che raccontava che oggi, rispetto ai suoi inizi, ci sono molto più cantautrici donne. E quindi appunto mi chiedevo voi, cosa avete notato dal punto di vista dell’evoluzione dei vostri dintorni.
Divi: il legame con la parte video della vicenda è cresciuta. Una volta potevi conoscere una band o un artista senza averlo mai visto, ma solo ascoltato. Oggi non è così. Un po’ per i social, un po’ per i talent che sono dei format televisivi che producono talenti, ammesso che così si possa dire… E poi c’è Sanremo, che è comunque uno spettacolo televisivo.
L’ambizione di molti progetti emergenti è funzionare dal punto di vista dell’immagine. Ed è più facile trovare progetti emergenti che funzionano perché hanno una forte componente d’immagine, come i numeri sui social, mentre è molto più latitante la parte musicale. Questo perché ci stiamo trasformando. La musica, oggi, è qualcosa che guardiamo. Non significa che se ti metti una chitarra addosso hai diritto ad avere il tuo spazio, però comunque c’è in corso un cambiamento.
Michele: e poi non esistono più le palestre live. È difficile portare il tuo progetto in giro, e farlo conoscere in un modo diverso rispetto ai social. C’è tutta un’architettura d’immagine che dal vivo è molto diversa. Una volta potevi crearti una fanbase molto solida andando in giro a suonare, mentre oggi è molto difficile farlo suonando dal vivo.
Federico: per dare uno spiraglio di luce, sono d’accordo con Levante. È vero che ci sono tanti progetti femminili in più. Anzi, io personalmente credo che le cose più interessanti degli ultimi due o tre anni siano state Emma Nolde, Daniela Pes, Lamante, e tante altre. Quello è un raggio di luce.
Voi sentite in qualche modo di essere costretti a seguire quest’evoluzione visuale della musica per rimanere, in un certo senso, contemporanei? Oppure, avendo una fan base consolidata e un’identità diversa, potete ignorarla?
Divi: io credo che a noi impatti relativamente. Abbiamo fatto un percorso molto denso, e possiamo scegliere di non immolarci su TikTok. Anzi, spesso ce lo chiedono, ma sappiamo che è un attimo cringiare malamente! Quando vediamo tentativi di nostri coetanei artistici in questa direzione, insomma, è un attimo ritrovarsi in una versione grottesca di se stessi, diventi un meme in un secondo. A noi piace il contatto con la gente, parlare con le persone. Poi non si può sparire, è il presente, e in qualche modo dobbiamo farci i conti.

Sono vent’anni che suonate insieme. Cosa vi fa venire voglia, ancora una volta, di rimanere i Ministri, in un mondo in cui le band si sciolgono?
Federico: non sappiamo cosa ci tiene insieme, ma sappiamo che l’abbiamo trovata, questa cosa. Succede quando stiamo suonando, quando attacchiamo i cavi e iniziamo a suonare. Quella cosa lì funziona, ci diverte. Ci sono mille altri modi di fare musica, in studio, più “a tracce”, più distanziata. Ma ci divertono di meno.
Divi: io credo sempre che è nei difetti, negli spigoli che incontri dell’altro, che si creano concetti virtuosi. Ci conosciamo da una vita, ed è bello scoprirsi anche su lati in cui non abbiamo confidenza, per inventarsi e ritrovarsi. È un rapporto sentimentale da scrivere e riscrivere quotidianamente. Lo coltiviamo dal liceo, ed è qualcosa speciale, che non tramonterà mai tra di noi. Prima di tutto siamo persone che si conoscono e sono amiche. Fare un disco ha anche tutti questi ingredienti dentro. Non c’è solo la musica, c’è anche il patema d’animo, il ritrovarsi, il generare l’entusiasmo. E credo che sia fondamentale: quando le band si appiattiscono, muoiono.
Michele: le cose belle costano fatica. Mantenere i rapporti costa fatica, ma il senso intrinseco lo proprio lì dentro.
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