“Libertà negli occhi”, Niccolò Fabi e l’arte di dar voce al silenzio

Stefano Benni ha scritto: “Il vero coraggio è quando non vedi nessuno vicino a te. Allora devi partire da solo. E poi magari ti volti indietro e c’è qualcuno, in mezzo agli alberi, sulla cima di una montagna, al di là del fiume. E capisci che sta camminando al tuo fianco.” Parto da questa frase tratta dal romanzo “Spiriti” letto diversi anni fa, che mi è subito balzata nella mente quando ho letto le dichiarazioni e cominciato ad ascoltare il nuovo disco di Niccolò Fabi, “Libertà negli occhi”.

Un lavoro che fin dalla copertina richiama il contatto con l’autentico, raffigurato in un paesaggio di montagna immerso nella neve su cui giace in primo piano un pallone e più precisamente un Supersantos. Per chi ha avuto come me la fortuna di nascere in un’epoca pre-digitale quella palla arancione non è una sfera in gomma espansa per uso ricreativo contraddistinta da una struttura leggera e flessibile.

Per noi Il Supersantos, in senso figurato e romantico, è molto più di un semplice oggetto

È un simbolo potentissimo di infanzia libera, di gioco improvvisato e senza regole, di comunità spontanea nata tra i marciapiedi, i cortili, i rioni. È la metafora di un tempo analogico, fatto di corpi in movimento, di sabbia tra le dita e ginocchia sbucciate, di pomeriggi che sembravano eterni.

Di un’epoca in cui bastava un pallone per costruire un mondo intero, in cui l’immaginazione era più concreta della realtà e la connessione tra le persone avveniva con uno sguardo, un passaggio, una corsa.

Nel contesto della copertina e del disco di Fabi, quel Supersantos piantato nella neve sembra quasi una traccia viva di calore e memoria dentro un paesaggio silenzioso e sospeso, un segno dell’umano, dell’esperienza vissuta, del ricordo affettivo che resiste anche nel bianco immobile del presente. Il suono secco del piede sull’asfalto, è la spensieratezza di pomeriggi infiniti, è il modo in cui si imparava a stare al mondo prima che arrivassero i tutorial.

Nel nuovo disco di Niccolò Fabi, c’è quello stesso spirito infantile, libero, fragile, vive ancora. E poi in questo disco c’è innanzitutto, e prima di tutto, la musica.

Perché il vero potere di Niccolò è quello di riuscire con la sua scrittura ancora oggi, a condensare in poche parole il significato di un’esistenza intera. Un’esistenza in cui ha ancora senso essere buoni, fragili, incoscienti. Come bambini che calciano un pallone controvento, senza sapere dove finirà, ma felici del gesto, del gioco, del presente.

Scrivere canzoni a cinquantasei anni, dice Fabi, è “un po’ cercare di far entrare il mare in un bicchiere”. Ma è anche un atto di incoscienza necessaria, quella stessa che si ha da ragazzi, quando ogni emozione nuova cerca la sua espressione più vera in una canzone.

«Quando si vive tutto per la prima volta – scrive – c’è un’urgenza e una verità nelle proprie espressioni che è impareggiabile. Le emozioni escono come acqua purissima dalla fonte». E allora Libertà negli occhi non è un disco che rincorre l’attualità, né la performance. È un disco che si concede il lusso del gioco, della lentezza, del silenzio intorno.

Più che un disco, è una parentesi. Una fotografia di un tempo presente puro, “come quello dei bambini”.

Dieci giorni tra le montagne, dentro una sala tutta in legno con vista su un lago ghiacciato. Strumenti sparsi ovunque, risate, camminate nella neve, incontri fortuiti, e le canzoni che arrivano, naturali. Un “ritiro monastico”, come lo chiama lui, condiviso con amici e compagni di viaggio. Nessuna pretesa, nessuna scadenza, nessun bisogno di esistere pubblicamente. Solo la voglia di esserci, davvero.

Fabi lo dice con chiarezza: «Devo a me stesso e a chi mi ascolta il dovere di non cadere nel trabocchetto della pubblicazione per inerzia». Libertà negli occhi è un disco nato per essere memoria e possibilità. Per fare pace col passato e col presente.

Perché, come scrive nella chiusa, «la vita va dove va il tuo sguardo». E questo disco, più che uno sguardo, è un abbraccio. Senza retorica, senza filtri. Di quelli che ti riportano dentro. Quelli dai quali non vorresti più staccarti.

Niccolò Fabi, Libertà negli occhi

È un disco che, come l’acqua che scorre – per citare uno dei brani più intensi – non forza il flusso ma lo accompagna, lasciando che sia l’ascoltatore a raccogliere significati, a sentire il peso o la leggerezza delle parole.

Fabi, nel pieno della maturità artistica, non rincorre più l’urgenza dell’affermazione, ma si concede il lusso raro di guardare indietro con gratitudine e avanti con disincantata dolcezza.

Brani come “L’amore capita” affrontano la complessità emotiva con uno sguardo che non ha più bisogno di eroi o colpevoli, ma solo di consapevolezza. Il racconto di una generazione (stavolta la sua e non quella dell’autrice dell’articolo) che ha imparato a difendersi, forse troppo, dietro la guardia alta delle proprie ferite.

“Nessuna battaglia” e “Custodi del fuoco” sono invece canzoni che parlano di identità, di tempo che cambia, di un presente in cui ci si sente spesso inadeguati o fuori posto. Eppure, anche in questo spaesamento, non c’è rassegnazione. C’è voglia di tenere accesa una fiamma, di custodire – appunto – quel fuoco interiore che ancora brucia anche se in silenzio.

In “Casa di Gemma”, l’autobiografia si fa tenera ironia. È una delle pagine più leggere eppure profonde del disco: un uomo che non si prende troppo sul serio, che accetta le sue goffaggini, la sua solitudine, e che si permette di “coltivare fiori in grande autonomia”, anche se parla di cardioaspirina al bar.

Gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.

Libertà negli occhi cover Niccolò Fabi
Niccolò Fabi – Libertà negli occhi [dal 16 maggio in formato fisico, dal 13 giugno in digitale]
Comincio con una domanda legata alla prima traccia del tuo nuovo disco, Alba, dove canti: “Io sto nella pausa che c’è tra capire e cambiare”. Ti chiedo: cosa succede in quello spazio sospeso? E perché, secondo te, è così difficile attraversarlo?

Quella frase nasce da un dialogo con un amico. Stavamo parlando del suo lungo percorso di psicoanalisi, e di come l’esperienza gli stesse restituendo molte consapevolezze, soprattutto sull’origine di alcuni problemi. Però siamo arrivati alla conclusione che la vera difficoltà non è capire perché siamo fatti in un certo modo, ma trovare la forza di cambiare sulla base di quella consapevolezza. È lì che si fa dura. A volte arriviamo a intuizioni importanti — grazie alla terapia, o anche solo parlando con amici — ma poi ci scontriamo con la fatica del cambiamento. E quella è la parte più complessa.

In un mondo che corre, che alza la voce, la tua scrittura sembra invece scegliere il silenzio. Il tempo lungo. Quanto conta, per te, il “non detto” in una canzone?

Moltissimo. E apprezzo la tua osservazione, perché è una direzione in cui sento di voler andare sempre più. Alba, ad esempio, è costruita attorno a una sola frase. Lì, volutamente, lascio spazio all’ascoltatore: è una sollecitazione, una traccia da cui partire per scrivere — dentro di sé — la propria storia. La musica fa il resto: è il paesaggio sonoro dentro cui muoversi liberamente.

In una delle canzoni dell’album dici: “L’amore capita e decapita”. Sembra quasi che l’amore non sia più uno slancio, ma una resa dei conti. L’età, secondo te, porta davvero a una forma più lucida di amare? E questa lucidità è anche una disillusione?

Non necessariamente. Le canzoni non sono teorie esaustive, sono spesso fotografie di stati d’animo — anche temporanei. In quel caso, stavo raccontando un momento specifico: quello in cui ci si accorge, con l’età, che lasciarsi andare all’amore — quello che ti fa perdere la testa — diventa più difficile. Per questo ho usato l’immagine della decapitazione. È forte, lo so. Ma in fondo è una metafora di quel tipo di amore totalizzante che ci faceva saltare nel vuoto, e che oggi, forse, ci fa più paura. Le difese che costruiamo da adulti ci proteggono, sì, ma a volte ci impediscono di perderci davvero. Eppure è in quella perdita di controllo che a volte si trova l’intensità più pura.

In “Nessuna battaglia” canti “non si può guarire da se stessi”. Qual è, per te, oggi, la differenza tra accettarsi e smettere di cercare di guarirsi?

Quella canzone ha una cornice emotiva precisa: non parla solo dell’identità o delle emozioni, ma anche del corpo, della malattia, della trasformazione. Quando il corpo ci mette davanti a un limite — una malattia, una fragilità — ci costringe a fare i conti con un cambiamento profondo. Ecco, in quel contesto, parlare di “battaglia” o di “nemico” può essere fuorviante. Perché la malattia non è qualcosa di esterno: siamo sempre noi. Le cellule “malate” non sono arrivate da fuori. In questo senso, non si può guarire da se stessi. Si può però evolvere, cambiare forma, accogliere una nuova versione di sé.

So bene di cosa parli. Vivo la malattia da quando sono bambina, e ho trovato tanto conforto nella tua canzone “Vince chi molla“. Mi ci rivedo tantissimo. Tornando a questo disco: hai attraversato il dolore più profondo che si possa immaginare e ne hai fatto memoria viva, pubblica, poetica. Ti chiedo: oggi, la musica è ancora uno strumento di elaborazione o è diventata altro? C’è spazio per qualcosa di diverso?

La musica è tante cose, e per fortuna. Con la musica si balla, si piange, si viaggia. Si fa palestra, si guida, ci si distrae. C’è tutto questo. Io, forse per indole o per la mia storia personale, tendo a usarla soprattutto come forma di automedicazione. È un modo per prendermi cura di me stesso, prima di tutto. E se poi questa cura può diventare utile anche per chi ascolta, tanto meglio. Ma la musica non è solo introspezione: c’è anche il gioco, l’evasione, la leggerezza. Non dobbiamo dimenticarlo.

Ultima domanda. “Al cuore gentile” è un brano che parla dell’amore come vocazione, una predisposizione d’animo. In un mondo cinico e disilluso, come si protegge un cuore gentile?

Quel brano nasce come una parafrasi della poesia Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizelli, una delle pietre fondanti dello Stilnovo. Ho voluto riportare quelle parole nella mia voce perché ho studiato a lungo la poesia medievale all’università, e farle risuonare in una mia canzone è stato anche un modo per incontrare il me di allora, quello che forse avrebbe potuto fare un’altra vita. In fondo, l’amore ha bisogno di nobiltà d’animo per essere accolto davvero. Non basta essere gentili: serve un passo indietro, un abbandono del controllo. È questo che intendo quando parlo di cuore “nobile”, non solo “educato”. È un’idea che continua a piacermi, anche oggi. Anche se — e ci tengo a dirlo — l’amore dovrebbe restare democratico, accessibile a tutti. Altrimenti davvero, ci resta poco.

LIBERTÀ NEGLI OCCHI TOUR 2025 [biglietti]:

  • 04 ottobre – ISERNIA – Auditorium 10 settembre 1943
  • 09 ottobre – RAVENNA – teatro alighieri
  • 11 ottobre – MILANO – Teatro Arcimboldi
  • 12 ottobre – MILANO – Teatro Arcimboldi
  • 13 ottobre – BOLOGNA – Europauditorium
  • 15 ottobre – TORINO – Teatro Colosseo
  • 19 ottobre – TRENTO – Auditorium Santa Chiara
  • 20 ottobre – PADOVA – Gran Teatro Geox
  • 25 ottobre – ASSISI (PG) – Teatro Lyrick
  • 26 ottobre – PESCARA – Teatro Massimo
  • 04 novembre – NAPOLI – Teatro Augusteo
  • 05 novembre – BARI – Teatro Team
  • 07 novembre – CATANIA – Teatro Metropolitan
  • 08 novembre – PALERMO – Teatro Golden
  • 11 novembre – UDINE – Teatro Nuovo Giovanni da Udine
  • 12 novembre – PARMA – Teatro Regio
  • 14 novembre – LUGANO (CH) – Palazzo dei Congressi
  • 16 novembre – LIVORNO – Teatro Goldoni
  • 17 novembre – FIRENZE – Teatro Verdi
  • 19 novembre – ROMA – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone
  • 20 novembre – ROMA – Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone

Sei mai stat* a un concerto di Niccolò Fabi? No? Leggi qui.

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