Quel pezzetto bello tondo di cielo d’estate: la vera storia dietro “Alfredo” dei Baustelle
10 giugno 1981. L’Italia trattiene il fiato. Per 60 ore (e fidatevi che sono tante). Con gli occhi incollati a uno schermo, con la speranza che diventa angoscia, e poi silenzio.
Quella è la storia di Alfredino Rampi. Ma è anche la storia di un Paese che scoprì, tutto insieme, quanto fosse doloroso guardare la sofferenza altrui in diretta. È la storia che, ventisette anni dopo, i Baustelle hanno deciso di raccontare in musica. Non con un’invettiva. Non con una cronaca. Ma con un sussurro. Il sussurro di un bambino che guarda un pezzetto tondo di cielo sopra di sé, e comincia a contar le stelle. Prima di addormentarsi.
“Alfredo“, è la decima traccia di Amen, un disco che nel 2008 segna la maturità artistica dei Baustelle. E dentro quel brano, tra le note gentili e un testo che sembra ora preghiera, ora una ninna nanna, c’è l’eco di un’epoca intera. La fine dell’innocenza. L’inizio di quella che, per mancanza di termini più eleganti, verrà definita “la TV del dolore”.
Un bambino che parlava al Paese dal fondo di un pozzo
Frascati, Roma. È giugno, l’estate è già alle porte. La famiglia Rampi si trova nella loro seconda casa per qualche giorno di serenità. Alfredo – sei anni appena – è scomparso. Sono le 21:30 quando i genitori, dopo averlo cercato inutilmente, avvisano le autorità. Passano poche ore, e lo trovano: Alfredino è caduto in un pozzo artesiano. L’apertura è larga appena 28 centimetri. Un cilindro stretto, crudele. Profondo 80 metri. Lui è vivo, cosciente, fermo a 30 metri sotto terra.
Da quel momento, l’Italia intera si stringe intorno a quel buco nel terreno. Arrivano i vigili del fuoco, gli esperti, i tecnici. Ma arrivano anche i microfoni. E le telecamere. La Rai decide di fare qualcosa che non aveva mai fatto prima: trasmettere tutto, in diretta, sicura di poter trasmettere live il successo delle operazioni di salvataggio. Un esperimento senza precedenti. Un abisso mediatico.
Ogni singola parola del piccolo Alfredo viene ascoltata da milioni di persone, grazie ai microfoni forniti dalla Rai. La sua voce, che chiama aiuto, che parla con mamma Franca, che chiede se davvero Jeeg Robot d’Acciaio stia arrivando a salvarlo. Una dolce bugia raccontata dai soccorritori per tenerlo sveglio. Per farlo sperare.
Intanto, il terreno argilloso complica tutto. Gli scavi collaterali falliscono. Il tempo passa, e il bambino scivola sempre più in profondità. La tensione cresce. Sul posto arriva anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Si cerca un miracolo. Ma quel miracolo non arriva.
“L’uomo ragno m’ha spezzato il polso”
Arrivano i contorsionisti. I nani. Gli acrobati. Uomini esili, pronti a farsi calare a testa in giù in un’apertura inumana. Un circo di folli, ma anche di coraggiosi. Tra loro c’è Angelo Licheri. Sardo, ex tipografo. Lo chiamano l’Uomo Ragno perché lo imbracano con un filo e lo calano a testa in giù. Riesce a toccare Alfredino, a stringergli il polso. Ma il braccio del bambino è ormai fragile, forse è lui stesso a spezzarglielo. Il tentativo fallisce. E la speranza si spegne lentamente, mentre il Paese intero guarda, ascolta, si consuma.
Il 13 giugno, Giancarlo Santalmassi apre il TG1 con una frase che ancora oggi ci rimbomba dentro:
“Volevamo vedere un fatto di vita, e invece abbiamo visto un fatto di morte.”
Sessanta ore di sofferenza ininterrotta. Nessun lieto fine. Solo un senso di vuoto che difficilmente si può spiegare. Un trauma collettivo. Un punto di non ritorno.
Il giornalista Pietro Badaloni dirà che quello era andato in onda “il primo vero reality show della televisione italiana, un reality show della morte”. Analogo anche il commento di Emilio Fede, che disse:
“Ammesso che ce ne fossero le condizioni, se quel giorno fosse avvenuto un colpo di Stato, la gente avrebbe risposto: ‘Va bene. Però prima lasciami vedere che succede a Vermicino”.
I Baustelle danno voce ad Alfredo
Alfredo dei Baustelle è una ninna nanna di agghiacciante bellezza. Scritta in prima persona, è Alfredo stesso che racconta. Un bambino solo, intrappolato, che non sa bene cosa sia accaduto, ma sente di aver sbagliato. Di essere caduto. E inizia a raccontarlo con gli occhi rivolti al cielo, che si restringe.
“Tutta questa gente ha già capito che ho sbagliato / sono scivolato / son caduto dentro il buco…”
La melodia è una filastrocca. Ma le parole di Francesco Bianconi sono una lama. Poi arrivano i ritornelli, e la voce del bambino si alza, attraversa il tempo e interroga il potere.
“A Woytila e alla P2 / A tutti lo mostrò / A Forlani e alla DC / A Pertini e Platini…”
Una fotografia dell’Italia del 1981. Una lista di nomi che rappresentano il potere spirituale, politico, calcistico, segreto. Tutti testimoni. Tutti impotenti. La canzone non urla mai. Non accusa. Ma ogni verso è un pugno nello stomaco. La seconda strofa è la discesa finale. L’addio.
“Padre Nostro, con la terra in bocca non respiro / La tua volontà sia fatta / Non ricordo bene, ho paura…”
Non è solo Alfredino a parlare. È l’Italia a pregare. È la memoria di una generazione che, da quel momento, ha iniziato a convivere con la consapevolezza della morte trasmessa in prima serata. Con l’orrore quotidiano servito come spettacolo.
“Alfredo” dei Baustelle: a chi mai dentro di sé il vuoto misurò.
Quella tragedia, quel pozzo, quell’agonia di 60 ore. Hanno aperto una porta che non si è più richiusa. La porta sulla sofferenza pubblica. Sull’intimità violata. Sulla spettacolarizzazione del dolore. I Baustelle, con la delicatezza e il coraggio che li contraddistingue, ci mettono davanti a tutto questo. Senza mai giudicare. Ma con una dolcezza disarmante.
È per questo che “Alfredo” dei Baustelle non è solo una canzone. È un documento storico. Una voce bambina che racconta la nostra storia con una lucidità che fa tremare. È musica che commuove, perché ci costringe a guardare là dove non vorremmo.
Una canzone che non urla. Ma che ci parla, anche quando il volume è a zero. Anche quando, chiusa la canzone, restiamo a guardare il cielo. Quel pezzetto tondo. Che ora, come allora, sembra restringersi.