Fedez e la depressione: come non raccontarla assolutamente
La partecipazione di Fedez al Festival di Sanremo 2025 con la canzone “Battito” ha suscitato un acceso dibattito sulla rappresentazione della depressione e della salute mentale nella musica. Il brano personifica la depressione come una figura femminile, descrivendo esperienze di sofferenza interiore, l’uso di psicofarmaci e il desiderio di allontanare il dolore.
Fedez, per raccontare la depressione senza fronzoli, cerca di metterci la faccia. O meglio, metterla alla malattia mentale, personificandola in un ruolo femminile. Eppure, come spesso succede, il risultato è più di un colpo al cuore: è un colpo al cervello.
Perché la depressione in “Battito” non è solo la “spina nel fianco” dell’artista, ma un personaggio che lo tormenta, lo strazia, lo insegue come un’ombra che non se ne va mai.
E da qui nasce il dibattito che ci si aspettava, o meglio la polemica in cui lui sperava: Fedez ha raccontato la depressione in modo veritiero o l’ha solo indossata come un costume da palcoscenico, sfoderando una visione tanto drammatica quanto problematica?
La personificazione della depressione, parola d’ordine: semplificazione
Se un artista decide dare un volto alla depressione, bisogna ammettere che, almeno stilisticamente, c’è un certo fascino nel rendere un male invisibile e complesso un’entità ben definita. Un po’ come se invece di raccontare le nuvole, le disegnassimo facendole sembrare sempre pronte a scaricare pioggia. Nella letteratura e nell’arte è un espediente abbastanza comune quello di antropomorfizzare il dolore per renderlo più accessibile, concreto, tangibile.
Ma, attenzione, perché in questo caso Fedez ha scelto una figura femminile, che, a quanto pare, non fa sconti a nessuno. Però, forse, si è dimenticato di spiegare una cosa. La depressione non è una malattia che si materializza come in un film horror dove l’antagonista cammina dietro il protagonista in modo minaccioso. Personificare la malattia ha il rischio di semplificare, di rendere la battaglia interiore troppo “romantica”, quasi leggendaria.
Psicofarmaci: il vero nemico è l’ignoranza
Arriviamo al secondo tema caldo: gli psicofarmaci. E qui Fedez se la prende con l’industria della “legalizzazione” del dolore, riducendo i farmaci a una specie di placebo sociale. La frase che dice “Socialmente accettato, anestetizzato da un metodo legalizzato” lascia pensare che i farmaci per la depressione siano un modo per mettere una toppa, una sorta di “fumo negli occhi”. Non è proprio così.
Gli psicofarmaci sono strumenti terapeutici che, quando prescritti correttamente, possono migliorare la qualità della vita di chi soffre. Rappresentarli come meri strumenti di “anestetizzazione” è non solo superficiale, ma anche pericoloso. Perché se c’è una cosa che la gente con disturbi mentali non ha bisogno di sentirsi dire, è che la cura di cui ha bisogno è un errore sociale. Il rischio che corre Fedez, purtroppo, è quello di fare un danno ben più grande di quanto immagini.

La responsabilità degli artisti e diciamocelo
Perché, diciamocelo, la musica ha un potere enorme. E, in questo caso, l’artista può scegliere se essere una voce che amplifica la disinformazione pur di far parlare di sé. Gli artisti hanno il diritto di esprimere le proprie emozioni, ma quando si trattano argomenti delicati come la salute mentale, la loro responsabilità è enorme. Soprattutto se sei uno con 13 milioni di followers.
Se un brano viene trattato senza una base di consapevolezza, rischia di diventare il “catalizzatore” di un pensiero superficiale e ancor più pericoloso.
Non è un caso che la stampa anziché interrogarsi, spinga il pubblico a consumare narrazioni semplificate, non supportate da un’analisi critica. Ecco il problema: il messaggio di Fedez può risultare affascinante, ma è anche un passo indietro in termini di rappresentazione della malattia mentale. Quando la stampa si fa da cassa di risonanza senza interrogarsi, non fa informazione. Sta solo amplificando il rumore.
Questo approccio contribuisce ad amplificare messaggi che potrebbero alimentare pregiudizi e distorcere la realtà della malattia mentale. In pratica, invece di usare la musica come strumento per sensibilizzare e portare chiarezza, si finisce per dar voce a una rappresentazione che può sembrare più una caricatura che una riflessione profonda.
Quindi, invece di interrogarsi sulle possibili implicazioni sociali del messaggio e su come possa influenzare chi soffre di disturbi mentali, si tende a prendere la narrazione per buona, alimentando la superficialità e il rischio che certi stereotipi restino radicati nella società. Una stampa che non interroga queste storie non fa un buon servizio alla società; anzi, rischia di perpetuare una visione monodimensionale e potenzialmente dannosa della depressione.

L’Importanza della narrazione
La salute mentale non è un tema da trattare come se fosse un dramma da “fine settimana”. Bisogna fare un passo avanti.
La depressione non è una condanna definitiva. La sua narrazione dovrebbe includere il concetto che può essere affrontata, che le persone possono guarire, che i percorsi terapeutici esistono e funzionano. Una canzone, un articolo, un libro, possono essere uno specchio della realtà, ma devono anche offrire soluzioni, visioni alternative, prospettive possibili.
Siamo stanchi di vedere la depressione rappresentata come una figura mitologica che si impossessa della nostra vita. È tempo di scrivere storie più complesse, dove la malattia non è una sentenza che ci identifica in maniera univoca. E se la musica ha il potere di raccontare, allora deve essere in grado di scavare oltre la superficie di una relazione pseudo romantica o peggio ancora, di un amore tossico.
Non c’è nulla di male nel raccontare il proprio vissuto, ma se davvero vogliamo abbattere lo stigma sulla depressione, dobbiamo fare in modo che la narrazione non si fermi alla disperazione di un privilegiato in cerca di qualche forma di riscatto o di consolazione.
Quello che sta accadendo in questi giorni è che una parte della stampa, invece di analizzare in modo critico le narrazioni offerte da artisti come Fedez sulla depressione, tende a riprenderle senza porre domande su quanto possano essere dannose o semplificate. Quando un giornale sceglie di intervistare uno psichiatra che appoggia la visione di Fedez senza metterla in discussione, non solo manca di fare un lavoro di analisi, ma rischia anche di confermare una visione distorta.
La rappresentazione della depressione come un’entità esterna e persecutoria è davvero utile per il pubblico? Oppure rischia di rinforzare uno stereotipo negativo e fatalista sulla malattia mentale?