L’indie è risorto o è solo uscito il quarto disco dei cani?

Maggio 2025: il campionato di Serie B è finito, e il Frosinone, al netto di penalizzazioni e ricorsi di vario genere, si giocherà la permanenza nella serie cadetta con i playout. Papa Francesco è morto ormai da un mese, Leone XIV invece pare stare molto bene. Del resto, sono passati dieci anni da quando Calcutta, leggendo il giornale, si meravigliava di trovare un mondo molto diverso. La cosa incredibile, però, è che il Frosinone è retrocesso in B (non per la prima volta da allora, a onor del vero), e Papa Francesco è morto, nello stesso anno – anzi, nello stesso mese – in cui è uscito il quarto album dei Cani. Così de botto, ma forse con un senso. E quindi: l’indie è vivo? È morto? È rinato e si è trasformato in qualcosa di diverso?

Rispondere alla domanda “che cos’è l’indie” è un’opera intellettiva seconda solo a comprendere e spiegare le Varietà di “Calabi-Yau” per chi non possiede una formazione scientifica.

La musica italiana ha conosciuto, nella sua storia recente, tre ondate di “indie”. Anzi, forse sarebbe più corretto dire quattro. Ondate che sono state molto diverse tra loro, proprio dal punto di vista di quello che ha unito tutti questi artisti dentro uno stesso modo di fare musica. Una prima si è sviluppata verso la metà degli anni Novanta. Il periodo dei Virginiana Miller, degli Afterhours che iniziano con Germi a cantare in italiano, dei Verdena, dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Era anche il periodo in cui nascevano alcune realtà giornalistiche indipendenti, come Rumore, che provavano a raccontare la scena musicale che si muoveva a lato dei riflettori. 

Questo “indie” ha poco o niente a che vedere col significato che oggi si tende a dare a questo termine. Addirittura, chiamarlo indie per qualcuno potrebbe quasi suonare come un sacrilegio. Era indie nell’accezione in cui ci si riferisce a band che si sono mosse fuori dalle radio e dai palchi principali. Che hanno creato una sottocultura che ha raccolto devoti proseliti che affollavano i piccoli locali della provincia.

Tra la metà degli anni Zero e i primi anni Dieci, è arrivata la seconda generazione.

Il sorprendente album d’esordio dei Cani, Vasco Brondi e Le Luci Della Centrale Elettrica, L’Officina della Camomilla, gli Zen Circus che nel 2009 rilasciano Andate tutti a fanculo abbracciando definitivamente l’italiano dopo averci un po’ flirtato, Maria Antonietta, Bomba Dischi. Ovviamente, Lo Stato Sociale, che ne cantò una sorta di manifesto e che iniziò a sfruttare il potere aggregativo dei social media. Com’era stato con i loro padri fondatori, anche questo indie si è mosso fuori dal commerciale, come una sottocultura appunto.

Erano gli anni dell’inizio del boom dei talent show. Giusy Ferreri arrivava seconda a X Factor, Alessandra Amoroso stravinceva Amici, Enrico Nigiotti si autoeliminava l’anno successivo per lasciare il posto ad Elena D’Amario. E il trionfo di Emma, nello stesso anno, confermava che non aveva importanza il sovraffollamento discografico. Se vinci Amici, i dischi, li vendi.

Queste prime due generazioni di indie possiedono, al loro interno, esponenti estremamente diversi.

C’era chi scriveva brani dark, noir, retti su linee di basso. Chi registrava dischi con uno xilofono giocattolo. Chi componeva brani da cantare a squarciagola, chi arrivava a sfiorare lo screamo, chi esplorava i territori della ska e del reggae. Quello che però ha donato unità a questa scena musicale è stato proprio questo muoversi ai margini di quello che vendeva e che perseguiva logiche capitalistiche di mercato. Fuori dalle major discografiche, dentro i piccoli club dove alle persone importava davvero stare a sentire cosa avevano da raccontare, e da suonare, queste band. Non si può dire che l’indie non abbia provato a entrare nel mainstream. Gli Afterhours andarono a Sanremo nel 2009, i Marlene Kuntz nel 2012, i Marta sui Tubi nel 2013, per esempio. Solo, non fu esattamente un successo.

Le cose sono cambiate, e in modo radicale, nel 2015.

Tutto a un tratto, l’Italia è diventato un paese votato all’autarchia musicale. Il brano più venduto quell’anno fu Roma-Bangkok. Non succedeva da sei anni a un pezzo italiano, sette senza contare gli Artisti Uniti Per L’Abruzzo. Un trend che, ad eccezione del 2016 e del 2017, a oggi è immacolato.

A partire dal 2015, l’indie ha conosciuto la sua terza generazione. Che ha preso il via con Mainstream di Calcutta, e che da lì è esplosa. Aurora, La fine dei vent’anni, l’arrivo di Coez, la genesi dei Coma Cose, Oroscopo che la cantano pure i muri, il Mi Ami che diventa il posto in cui andare per forza. Cavalcando quest’onda, e spinti anche dalla rivoluzione nella facilità con cui si può pubblicare un brano, nascono così tante band indie, che tenerne il conto diventa impossibile. L’indie, da questo momento, inizia a diventare di tutti. Ascoltare musica italiana, all’improvviso, diventa socialmente accettabile. Alcuni diranno perché il livello del mainstream si è alzato. Altri diranno perché lo fanno tutti.

Gli artisti indie di terza generazione hanno due punti di rottura rispetto ai predecessori.

In primo luogo, una maggior leggerezza compositiva. Nei suoni c’è meno basso, meno batteria, più chitarre acustiche e perfino qualche sintetizzatore. Le melodie sono orecchiabili e mai spettrali, gli accordi sono pochi e sono facili, le strofe cantate e non parlate, le armonie semplici. 

E poi ci sono i testi. Quotidiani, banali, triviali. Si parla della Coca Zero, del Frosinone in Serie A, delle fermate della metro di Milano, di cose così terrene che è impossibile non comprenderle. Le metafore spariscono, le dichiarazioni d’amore diventano semplici ed essenziali. Ho una scuola di danza nello stomaco. Punto. E allora l’indie inizia a spopolare. Come un paradigma culturale, si instaura un sentire comune dentro chi, a quel tempo, aveva tra i venti e i trent’anni. Per la prima volta, quei ragazzi capiscono cosa significhi avere un inno generazionale, guardarsi intorno e sentirsi capiti, accomunati da canzoni che, si intuiva già allora, avrebbero trasceso il loro tempo. 

L’indie diventa aggregazione. Le playlist degli indie-boy si possono indovinare a memoria. O sei un tipo da Il posto più freddo e Campari, o non lo sei. Non ci sono vie di mezzo. E per tutti noi, che fino ad allora avevamo disperatamente cercato un posto musicale a cui appartenere, sembrava un sogno.

Che tutte le cose belle finiscono, lo dicevano gli Zero Assoluto con Nelly Furtado, e chi sono io per non dar loro ragione.

A un certo punto, l’indie è morto. Il nuovo è diventato per certi versi cringe – ma davvero ascoltavamo pezzi così didascalici? Il vecchio è diventato appannaggio di nostalgici che faticano ad accettare il tempo che passa. Se qualche decennio prima, l’indie era un’intenzione, un meccanismo ben preciso, una sottocultura che conteneva moltitudini, adesso era diventato un tipo di canzone ben preciso. Pianoforte, ballata, testo facile, accendini ai concerti. Il punto è che questo tipo di pezzi iniziò a spopolare, perché l’indie iniziò a funzionare e a vendere. In radio, a Sanremo, al Battiti Live. Riempiva le venue più grandi, fuori dalla provincia. E l’ossessione che molti artisti iniziarono ad avere di farne parte, la smania di sentire di avere tra le mani la possibilità di fare successo si trasformò in una minore attenzione alla composizione.

C’erano delle modalità di scrittura che funzionavano, chiare e replicabili, e che iniziarono a venir reiterate senza pensiero critico e innovazione. Questo portò l’indie dentro il mainstream, ma ne dichiarò appunto anche la morte. Si partì con Oroscopo, si passò tramite Tommaso Paradiso che iniziò a scrivere pezzi come L’esercito del selfie. E si arrivò al Festival di Sanremo 2021.

Quell’anno, Amadeus chiamò sul palco del Festival molti esponenti della terza generazione dell’indie.

Fulminacci, La Rappresentante di Lista, Colapesce Dimartino, Willie Peyote, Madame, i Coma Cose, Ghemon, Gio Evan, persino Davide Toffolo e Lo Stato Sociale (per la seconda volta). Il Festival di Sanremo, nell’anno del coprifuoco, in cui non c’era nient’altro da fare se non guardarlo, fu popolato da artisti che fino a pochi mesi prima avevano utenze comunque più ristrette, ascolti più limitati. Certo, erano artisti che stavano definendo i confini di un certo tipo di musica generazionale, ma erano appunto limitati a quella bolla. Erano però parte di un fenomeno che non si poteva ignorare, e ben lo intuì il direttore artistico.

Solo che l’indie non è per sua natura musica che si presta ad estrapolazioni di pochi secondi, a colonne sonore di reel, a trend sui social. Per essere comprese, queste canzoni avevano bisogno di qualche approfondimento in più, di essere ascoltate per intero e soprattutto dal vivo. E invece, nel Festival giunto alla seconda edizione del Fantasanremo, serviva qualcosa di immediato, che si prestasse ai meme.

E non è un caso che nel 2021, l’unico pezzo di questa generazione che finì nella top 20 delle canzoni più ascoltate dell’anno fu “Musica leggerissima“.

Che no, non è una canzone facile, ma è una canzone sulla quale fu costruito un balletto che su TikTok spopolò. Nel 2022, l’unico posto in top 20 andò a La Rappresentante di Lista con Ciao Ciao – vedi sopra. Nel 2024, Malavita dei Coma Cose. La morte dell’indie – almeno, dell’indie di terza generazione – avvenne così. Con qualcuno che scelse di giocare il campionato del pop, cedendo ai tormentoni e ai ritornelli facili in cambio di qualche ascolto in più. E con qualcun altro che probabilmente aveva esaurito, almeno per il momento, le cose da dire. In mezzo, migliaia di tentativi di replicare un meccanismo canzone che sembrava funzionare molto bene.

E che per alcuni funzionò effettivamente molto bene – i Pinguini Tattici Nucleari riempiono gli stadi, fedeli a certe modalità di scrittura dei pezzi e a certe scelte lessicali, che evidentemente a qualcuno arrivano forte e chiaro. Proprio mentre l’indie si snaturava, moriva, si commercializzava, in Italia il focus si stava spostando altrove. Nasceva l’ossessione per la trap.

La trap è arrivata allo stesso modo in cui era arrivato l’indie: come una sottocultura.

Anche la trap si è mossa, almeno apparentemente, fuori dai canoni del commerciale. È nata all’esterno dei talent show, a Sanremo non ci ha quasi mai messo piede. A differenza dell’indie, però, è riuscita a prendersi le classifiche, a finire in cima ai brani e ai dischi più venduti dal 2020 in avanti. Nel 2020 Sfera Ebbasta con Famoso è arrivato secondo, dietro soltanto a Marracash con Persona. Poi nel 2021 è toccato a Rkomi, nel 2022 a Lazza, nel 2023 a Geolier, nel 2024 a Tony Effe.

Questo perché, anche per un tema generazionale di ascoltatori, la trap è sopravvissuta all’utilizzo degli snippet come colonne sonore per i reel o per i video sui social media. Anzi, proprio in questo modo ha fatto proseliti ed è riuscita a diventare un fenomeno discografico (ma anche commerciale, e talvolta consumistico) imprescindibile. La trap ha saputo dare voce a chi proveniva da situazioni di estremo disagio. La voglia di riscatto e di rivalsa, il voler fare soldi perché da piccoli in famiglia sembrava una velleità nemmeno pensabile. La trap ha raccontato la strada, e lo ha fatto con l’autotune, con delle iperboli, con la volontà esplicita di fare polemica e di essere scomoda, perché così tutti erano obbligati ad accorgersene.

È ironico come ci sia stato un preciso momento, la mezzanotte dell’11 Aprile 2025, che ha messo faccia a faccia l’indie e la trap.

Le due sottoculture della musica degli ultimi vent’anni non avevano mai avuto un incontro così ravvicinato. Qualche ora prima, era uscito a sorpresa post mortem, il quarto album dei Cani. In quell’istante, usciva SANTANA MONEY GANG, disco di Sfera Ebbasta e Shiva, l’acmè della trap.

Sopra un Classe G quando ritorno nell’hood, prendo quella miss la voglio mettere in loop (SNTMNG).

Io volevo un paio di Nike, poi finalmente è successo, volevo brillare ogni night, in questi diamanti il riflesso (MOLECOLE SPRITE).

Ancora, mio fra c’ha lo sguardo vuoto mentre tiene il figlio in braccio, va a comprargli i pannolini con i soldi dello spaccio (PARANOIA).

Non esattamente una ventata di novità. Questo album di coppia, sulla carta la definitiva consacrazione della vittoria della trap, ha in realtà reso palese che la trap del mainstream, quella che si è presa tutte le classifiche degli anni Venti, non ha più niente di nuovo da dire. Certo, anche solo per curiosità, continua a macinare ascolti. SANTANA MONEY GANG è stato il miglior debutto dell’anno su Spotify Italia, con le 12 tracce che hanno colonizzato la classifica, e più di 11 milioni di stream nel primo giorno di uscita. Ma di solo hype, non si può vivere tanto a lungo. Servono nuove idee. Serve tornare all’essenza di sottocultura. Con nuovi esponenti che ancora vivono quelle situazioni che mettono in musica.

Niccolò Contessa, invece, qualche nuova idea e qualche storia da raccontare ce le ha.

Nei primi tre album ha narrato i pensieri, anche quelli più reconditi e di cui un po’ ci si vergogna, degli adolescenti, dei primi anni di università, e poi di quando si comincia ad essere un po’ più adulti. Partendo dagli anni del liceo, quando alla fine uno ci provava a guardare oltre, ma se non sei abbastanza carina dentro quei vestiti a righe si finisce per far finta di niente. E poi in un attimo ci si ritrova adulti, in preda alle paranoie, alla ricerca sfrenata di serotonina, facendo ping-pong tra aeroporti e stazioni cercando luoghi a cui appartenere. 

Nove anni dopo, è il tempo della morte. Di rileggere Kafka, di celebrare l’amore, di aver forse trovato la felicità, se non quella almeno la serenità. Che, appunto, è una cosa da morti.

Ma non è solo questo: nel pieno degli anni della trap, si è fatto strada un indie di quarta generazione.

La generazione di Marco Castello che da solo, senza etichetta, è riuscito a creare una community leale di seguaci. Di Anna Castiglia, dei Post Nebbia e dei loro gruppi Telegram che sono l’evoluzione dei vecchi gruppi Facebook. E a cui magari, qualche nuovo Pippo Sowlo dedicherà qualche strofa. Una generazione di forte vocazione femminile: Lamante, Coca Puma, Anna Carol, Emma Nolde. Una generazione che ha studiato e non vuole ripetere gli errori della storia. E che quindi, per ora, si tiene ben lontana dal mainstream, ed è tornata a sfogarsi nei club, nei circoli ARCI e nei locali della provincia

Dall’11 aprile ho sentito “Oroscopo” in filodiffusione in tre bar diversi. Forse non basta a rifiutare l’ipotesi nulla, però può favorire nuove evidenze.

Non credo sia corretto dire che l’indie di terza generazione sia tornato con una portata pari a quella che ebbe un tempo. Certo, il tour dei Cani è andato sold out in quindici minuti, ma l’utenza è la stessa bolla che mandava in tutto esaurito i concerti dieci anni fa. Credo però sia corretto affermare che l’indie è risorto dalle ceneri del passato, e che è uscito vivo anche dalla trebbiatura della trap. E lo ha fatto in due modi.

In un modo plateale e, per certi versi, epocale: il ritorno dei Cani, all’improvviso. Ma lo ha fatto anche nel modo in cui, dagli anni ’90, ha sempre agito. Come una sottocultura, mettendo al primo posto la qualità artistica e il rispetto della canzone, non cedendo alle mode e agli stratagemmi facili, ai lati delle strade più battute. Con nomi, esponenti, generazioni che si susseguono, a volte si incontrano, ma si evolvono in continuazione. Ma che, vuoi o non vuoi, se uno ha voglia di cercare un po’, va a finire che li trova sempre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *