Festival di Sanremo 2025, ovvero l’elogio della mediocrità

Missione compiuta. Quante cose avevo chiesto nella letterina a Babbo Natale per questa edizione del Festival post-Amadeus! Avevo chiesto serate che non mi portassero allo sfinimento, facendomi stare sveglio fino all’una passata a ridere istericamente delle gag di Fiorello, e l’ho ottenuto!! A questo Festival di Sanremo 2025 avevo chiesto che quei monologhi, così infarciti di retorica, inclusione e buonismo smettessero di ammorbandomi le serate lasciando spazio alla musica, e l’ho ottenuto! E poi avevo chiesto che l’effetto tagadà, con canzoni più buone per una festa delle medie che altro lasciassero il posto alla musica d’autore, e l’ho ottenuto! Avevo chiesto un regolamento che non annullasse completamente né il televoto, né il voto degli “esperti”, e l’ho ottenuto (si, il televoto ha ribaltato il risultato, ma non è stato così difforme dagli altri voti)!

Alla luce di tutto questo, accolte tutte le mie istanze di pubblico, critico, addetto più o meno ai lavori, ascoltatore, fan, curioso, esperto, poeta, santo e navigatore posso tranquillamente dire di essere soddisfatto per questa straordinaria edizione.

E invece no.

Colpo di scena. Non mi è piaciuta l’apatia di Carlo Conti, la sua fretta, la totale mancanza di empatia verso i concorrenti; non ci sono piaciuti i siparietti (tolti tutti gli interventi di Geppi Cucciari), non ci sono piaciuti gli ospiti “parlanti” quasi esclusivamente ridotti alla solita passerella marchettara dei prossimi programmi RAI.

Poi ci sono loro, le canzoni. Le vere protagoniste (forse) della kermesse ligure.

Personalmente poco o niente da segnalare di particolarmente sorprendente. Giorgia fa Giorgia, Noemi fa Noemi, Brunori fa Brunori, i Kolors fanno i Kolors, Tony Effe non si sa cosa faccia (che poi è comunque la cosa che gli riesce meglio, quindi grande coerenza anche per lui). Tutti svolgono il compitino scritto per se stessi o scritto dai veri protagonisti degli ultimi anni del Festival di Sanremo, cioè gli autori al soldo delle major.

In tutto questo “6 politico”, la spunta il più “6” di tutti, Olly.

L’underdog, faccia pulita e paffuta, nessun segno particolare sulla carta d’identità. Non canta in napoletano, non ha tatuaggi che attraversano la calotta cranica o il dotto nasale, non ha una voce che lo riconosci ad occhi chiusi a meno che tu non sia sua madre (ma chissà) con una canzone che non ha riscritto né la storia dell’armonia, né quella della poetica stilnovista.

Ma forse è proprio questa l’arma vincente di questo tempo, non avere niente di particolare ed incisivo: è la normalizzazione della normalità. Tutti possono essere Olly, quindi tutti possono raggiungere i propri obbiettivi. Basta crederci e combattere per i propri sogni. Ecco, forse, a mio avviso, credere e combattere è un po’ pericoloso perché è un attimo che dopo di loro arriva “l’obbedire”.

La rivoluzione, dopo il piano quinquennale di Amadeus giunto alla sua fine, non è arrivata perché la presenza del cantautorato là così in alto è fumo negli occhi. Serve per placare gli animi di una parte di pubblico, quella che in realtà non avrebbe bisogno di Sanremo per amare un cantante, per ascoltare la sua musica, per andare ad un suo concerto.

L’obiettivo è creare macchine da soldi, fenomeni discografici da elevare a colpi di palazzetti, magari dopo l’Eurovision.

E guarda caso a fare tutto questo ci pensa ancora, ancora, ancora, ancora una volta il Re Mida, LA Re Mida, la regina Mida del mercato discografico italiano: Marta Donà, che non è una vocal coach, non è una paroliera, né una compositrice, né una direttrice d’orchestra. È una manager. Cioè, maneggia gli artisti.

Sia chiaro, i manager nella musica esistono da sempre, solo che fino a qualche anno fa, nessuno sapeva il loro nome.

Marta Donà dopo i Maneskin, che su quel palco effettivamente rappresentavano qualcosa di nuovo, dopo Marco Mengoni le cui doti vocali spero non siano in discussione, dopo Angelina Mango (e qui le scale cominciano a scricchiolare) investe tutto il suo arsenale comunicativo (e non solo) su Olly, lo studente universitario fuori sede, il dirimpettaio, l’amico di tuo figlio che citofona per andare al cinema con lui.

Angelina Mango vince il Festival di Sanremo 2024

Marta Donà è la perfetta personificazione dello iato che c’è in questo momento tra musica e discografia. Si ha la costante sensazione che le carriere vengano costruite da 10 a 100 in un tempo troppo breve per essere assimilato e metabolizzato dai ragazzi stessi, gettati in un meccanismo che è troppo più grande di loro, con l’aggravante che il turn over getta nella mischia sistematicamente qualcuno di noi da cui succhiare ogni goccia di sangue. Puro doping discografico.

Io non so se Olly abbia meritato di vincere questo Festival, sono però certo che Olly non meriti di finire nella lavatrice discografica alla quale a breve verrà sottoposto. Se ne uscirà vivo avremo, forse, una carriera da raccontare; se così non fosse avanti un altro.

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