Lo scorso 20 giugno Fabri Fibra ha pubblicato “Mentre Los Angeles brucia”. Tre mesi di ascolto non sono stati un ritardo, ma una scelta: per lasciare che le parole sedimentassero e che i versi più disturbanti — quelli che non citi mai a cuor leggero — trovassero un loro posto.
Ho letto diverse recensioni prima di iniziare a scrivere. Una tra le tante sottolineava che Fabri Fibra è diventato popolare tra le nuove generazioni anche grazie a “Nuova Scena”. Mi sono ricordata di quando da ragazzina ascoltavo “Applausi per Fibra” con l’MP3, rapita e inquietata da quella frase iniziale in cui raccontava provocatoriamente di mangiare lucertole aperte vomitandole in mezzo al giardino. Mi turbava eppure la ripetevo ossessivamente, come se in quel disgusto ci fosse una verità che nessun’altra canzone diceva. Quell’effetto ritorna in “Mentre Los Angeles brucia”: turbamento come fastidio che non respingi perché capisci che è lì il senso.
Industria culturale come macchina di dominio
Il primo strato dell’album è la critica all’industria culturale. Non siamo più nell’antagonismo dei primi anni, quando Fibra stava fuori dal sistema e lo attaccava sputando veleno contro TV, giornalisti e industria. Oggi lui ci sta dentro: firma con la major, collabora con Netflix, produce singoli radiofonici. Ma la differenza è che non si lascia addomesticare: usa la vetrina per mostrarne le crepe, prende il linguaggio del mercato e lo piega a dispositivo critico.
È come entrare in un supermercato: tutto è organizzato in corsie di generi musicali, con offerte speciali sui singoli estivi e scaffali pieni di identità già confezionate. Dove l’artista non è più una persona con un percorso creativo unico, ma un prodotto da vendere e l’algoritmo è lo scaffalista che decide quali brani devono stare in vetrina e quali restare nascosti. In questo contesto, la “gloria” non è più un riconoscimento del talento o del valore artistico, ma una semplice etichetta di marketing. Quando dice “gloria da stronzi”, racchiude tutta l’ambivalenza di questa condizione: da un lato è un vantaggio, perché la notorietà porta visibilità e successo, dall’altro è una condanna, perché riduce l’artista a una merce, annullando la profondità e l’autenticità del suo lavoro.
L’Italia che Fibra fotografa è un vero e proprio teatro del consumo.
Non importa se sei ricco o povero: l’aspirazione è la stessa, il lusso come religione nazionale. Ecco allora il ritornello beffardo: “che gusto c’è” a vivere in un Paese che ti insegna a desiderare più di quanto puoi permetterti? La meritocrazia è un carillon che gira a vuoto, una promessa fatta per non essere mantenuta?
Fabri Fibra, però, non ne esce da moralista. Non dice: io sono migliore. Dice: anch’io sono dentro al supermercato, anch’io pago il prezzo. Ma lo dico ad alta voce. Ed è ciò che fa la differenza: non fingere di essere fuori, ma usare il palcoscenico per sporcare il palcoscenico.

Iperconnessione e stupidità
Il secondo strato del lavoro di Fabrizio è una vera e propria diagnosi del nostro tempo iperconnesso. L’artista descrive internet come un’infrastruttura di potere che struttura comportamenti, emozioni e relazioni. I social network, in questo senso, non sono un passatempo innocuo: sono strumenti che modellano chi siamo e come ci rapportiamo al mondo.
In “Tutti Pazzi”, questa visione prende forma attraverso la fotografia di un mondo che scorre interamente sugli schermi. Qui la responsabilità personale si annulla dietro una tastiera: basta digitare per agire senza conseguenze tangibili. E l’offesa si trasforma in un atto che sembra avere effetto senza richiedere impegno reale. Il telefono non è più un semplice strumento, ma un vero e proprio tribunale in cui ogni messaggio, ogni post, ogni reazione si presta a diventare implacabile giudizio. E noi siamo insieme giudici e imputati: partecipiamo al sistema di valutazione e punizione senza nemmeno rendercene conto.
Non rappo per la rete, che cazzo ne sapete / Tra influencer e boomer, oggi il Fuhrer farebbe lo youtuber / Se ti piace metti like, c’è chi capisce terzo Reich /Tutti a parlare del fascismo, ma sui social regna il fa-shit-storm
Con brani come “Stupidi” , Fibra porta questa diagnosi a un livello ancora più radicale.
La stupidità non è più un errore sporadico, un comportamento casuale, ma un vero e proprio “sistema operativo” del presente. Siamo costantemente allenati a reagire in maniera superficiale, a ragionare per hashtag, a vivere come se fossimo testimonial di noi stessi. L’artista non ci osserva dall’alto, giudicandoci: ci mette dentro il sistema, ci costringe a riconoscerci come complici, partecipanti volontari di un teatro delirante in cui tutti recitiamo ruoli fittizi.
In pezzi come “Tossico”, Fibra sposta il discorso dal singolo individuo alla dimensione collettiva.
Non si tratta più soltanto delle fragilità personali, ma del modo in cui l’intero ambiente digitale e sociale diventa un terreno contaminato. Le piattaforme non sono contenitori neutri: diffondono una tossicità sistemica che entra nei rapporti, li distorce e li corrode dall’interno.
Gli amici – che un tempo erano rifugio e sostegno – diventano spesso veicolo di stress, competizione, dinamiche distruttive. Il confronto costante con le vite altrui, filtrate e spettacolarizzate dagli schermi, alimenta invidia, ansia, senso di inadeguatezza. Il desiderio, invece di crescere come forza vitale, si consuma in un ambiente saturo, dove tutto è già esposto, pronto all’uso e subito scartato.
La tossicità, allora, non è più un vizio individuale, un comportamento da correggere o un eccesso occasionale: diventa l’atmosfera stessa che respiriamo. È un clima culturale ed emotivo che logora lentamente, che normalizza il veleno fino a renderlo invisibile.

Se il dolore ti rende cattivo lo hai sprecato, forse.
Il cuore pulsante di “Mentre Los Angeles brucia” è, però, il trauma. Ma non come confessione intima: come lente politica. La violenza non è un episodio personale, è un modello che si riproduce, un codice che plasma generazioni.
In “Mio padre”, Fabri Fibra scoperchia la ferita più profonda: la rabbia subita, gli abusi, le cicatrici che non si chiudono mai del tutto. Ma non lo fa per piangersi addosso o per cercare compassione: lo fa per mostrare come la violenza non sia solo un fatto privato, ma una catena culturale che si tramanda di generazione in generazione. Ogni padre violento non è solo un individuo con colpe personali: è un ingranaggio di un meccanismo sociale che continua a replicare sé stesso, normalizzando l’abuso e legittimando modelli di dominio.
“Figlio” diventa la risposta, il tentativo di invertire il ciclo. Se non hai ricevuto cura, puoi comunque provare a donarla. Se sei cresciuto nella violenza, puoi scegliere di non perpetuarla.
In brani come “Tutto andrà bene” la ferita non è più solo individuale, ma collettiva. Fibra apre lo sguardo e porta dentro il disco le storie di chi non ce l’ha fatta: il bullismo che diventa persecuzione quotidiana, i suicidi adolescenziali, i commenti trasformati in armi capaci di colpire più di un pugno. È la cronaca di un dolore diffuso, che abita le scuole, le chat, i social, i corridoi invisibili in cui si cresce oggi.
Qui il rap cambia funzione: non è più linguaggio sporco, aggressivo, di rottura.
Non offre consolazione facile né frasi motivazionali da poster: fa qualcosa di più radicale, nomina il dolore. Perché ciò che non viene nominato resta invisibile, e l’invisibile continua a fare male senza essere riconosciuto.
Marco legge commenti cattivi sotto le sue foto / Marco a scuola sente quei sorrisi / Piange dal nervoso / Marco preso in giro perché / Con le ragazze lui non ci prova / Ma Marco forse è timido / Marco ferito da quella parola / Come se fosse davvero una colpa / Come se a quindici anni / Già puoi avere una risposta / E la famiglia non capisce / Perché Marco è triste / Anche se Marco finge / Tutte ‘ste malelingue / Le cuffie per non sentire gli insulti / Su WhatsApp Marco esce dai gruppi / Marco che si allontana da tutti e non si trova / Lo cercano per ore mentre scende il sole / Lo zaino e le sue scarpe sugli scogli / Il mare è agitato e non lo controlli / E adesso Marco è nei ricordi / Insieme a tutti questi giorni
“Vivo” con il bellissimo omaggio ad Andrea Laszlo De Simone è la conferma di quanto detto fino ad ora: vivere nonostante tutto, esistere come atto politico. In un mondo che ti vuole distratto, rassegnato, anestetizzato, dire “vivo” è resistenza.

La title track, “Mentre Los Angeles brucia”, si pone come manifesto di questo gioco delle parti.
L’immagine dell’incendio è una metafora potente e perfetta: la città arde, i telegiornali trasmettono le fiamme in diretta, ma la vita privata continua senza scosse. Mentre un pezzo di mondo crolla, l’altro scrolla. L’apocalisse non arriva più come evento eccezionale, capace di bloccare il respiro collettivo: è diventata uno sfondo continuo, uno scenario ordinario che accompagna la quotidianità senza scalfirla.
Ciò che un tempo avrebbe scandalizzato, fermato le conversazioni e imposto attenzione, oggi viene inglobato nel flusso infinito di notizie e immagini. La catastrofe si consuma in parallelo alla routine: si guarda il disastro con lo stesso gesto con cui si guarda un meme o una pubblicità. L’incendio, che dovrebbe generare urgenza e paura, si trasforma in un’immagine estetica, un contenuto da consumare e subito dimenticare.
In questa visione, Fabri mostra l’assuefazione del presente
Viviamo in un costante sottofondo di emergenza, dove tutto brucia ma nulla ci interrompe davvero. L’apocalisse diventa la nuova normalità, il rumore bianco del nostro tempo.
“Cometa” porta questa visione al parossismo: ridere della fine del mondo. Satira apocalittica come forma di sopravvivenza. Non perché la fine non sia reale, ma perché non abbiamo più strumenti per affrontarla.
“Verso altri lidi” chiude con una lezione: la fuga è strategia politica. Non più utopia, non più evasione, ma gesto radicale. Non puoi cambiare la macchina dall’interno? Cambia posizione. Spostati. Reinventa.
Perché questo album è importante? Perché rompe la separazione tra privato e pubblico, tra trauma e industria, tra consumo e politica.
Dentro queste 17 tracce c’è tutto, ci sono i feat, le confessioni, la rabbia, i tormentoni. Quel che è certo è che Fabri Fibra non cerca di essere amato. Non cerca di essere celebrato. Quest’album è un atto d’accusa: contro il mercato, contro i social, contro la stupidità, contro la violenza ereditaria.
E la cosa più disturbante è che non puoi dire “non mi riguarda”. Perché l’industria siamo noi che ascoltiamo, i social siamo noi che postiamo, la stupidità siamo noi che la rilanciamo, la violenza siamo noi che la ereditiamo o la trasmettiamo.
“Mentre Los Angeles brucia” non ti fa la morale, ma ti mostra il rogo. Sta a te decidere se continuare a scrollare. Se ti lascia indifferente, significa che sei già anestetizzato. Se ti brucia dentro, allora vuol dire che sei ancora vivo.
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