La magica storia del “bis”: perché i cantanti escono e poi ritornano?

La sala è buia. Il cantante con la sua band ha lasciato il palco, eppure nessuno si muove. E chi lo fa viene anche ripreso dai veterani della musica dal vivo: “ma dove vai?! Aspetta che ora torna!”. Le mani cominciano a battere, i piedi tamburellano sul pavimento, e poi, da qualche angolo buio dell’arena, si leva un grido: “Bis!”. Oppure “Encore!”, se siete all’estero. Oppure “Se non fate l’ultimo noi non ce ne andiamo”, se siete nei peggiori bar di periferia.

Siamo abituati a questo momento. Lo diamo per scontato. Eppure, la storia del bis — o “encore”, come dicono gli anglofoni che paradossalmente utilizzano una parola francese — è lunga, tortuosa e piena di deviazioni, scandali e rivoluzioni. È una storia di palchi e sudore, di aristocratici salotti viennesi e stadi urlanti. 

Ma soprattutto, è una storia che parla di un desiderio umano: quello di trattenere un’emozione ancora un istante, prima che svanisca per sempre. Ed è una storia di psicologia inversa: che il pubblico torni a casa con la percezione che l’artista gli abbia concesso più di quanto previsto. E poco importa se è solo un’illusione.

Dove tutto ebbe inizio: dal salotto della borghesia al grande rock

Per raccontare questa storia bisogna tornare indietro. Non ai Pink Floyd o a Elvis Presley. Ma a Mozart. Siamo a Vienna, 1° maggio dell’anno 1786 (no, a quei tempi niente concertone in Piazza San Giovanni). Le nozze di Figaro debutta in un Burgtheater gremito, e le ovazioni non si contano. Tanto che, a furor di popolo, alcuni brani vengono ripetuti all’istante. Non c’erano vinili, né cassette, né streaming: se volevi ascoltare di nuovo quel brano dovevi chiederlo lì, subito. Encore!, dicevano i nobili francesi in platea. Ancora.

In quei templi sonori ottocenteschi, gli encores erano richieste autentiche, spontanee. Ma già allora c’era chi li temeva: in alcuni teatri d’opera vennero banditi peggio dei riff dei Deep Purple nei negozi di chitarre negli Stati Uniti, ritenuti fonte di disordine. L’arte, secondo quelli che benpensavano, doveva finire con dignità, non con il pubblico che batte i piedi come al circo.

Eppure, proprio quel “disordine”, qualche secolo dopo, diventa il cuore pulsante della musica rock. Negli anni Sessanta, mentre i giovani bruciano regole e convenzioni, il bis diventa il simbolo di un nuovo patto non scritto tra artista e pubblico. Non più una concessione nobile, ma un grido viscerale. Gli Stones, gli Zeppelin, gli Who: quando suonano, il palco non è più un piedistallo ma un campo di battaglia emotiva. L’energia non finisce mai davvero. Può solo rallentare, prepararsi a esplodere un’ultima volta. Encore.

E così, ciò che era nato nei palazzi dorati dell’Impero Asburgico si reincarna sotto forma di sudore, jeans strappati e assoli infiniti.

C’è chi dice no: Elvis non ripete, come Paganini

Ma se c’è una regola nel mondo dell’arte, è che nessuna regola vale per tutti. Alcuni decidono di spezzare la magia, o di rifiutarla. Elvis Presley, ad esempio. Il Re. Maestoso, irraggiungibile. Il suo manager, il famigerato Colonnello Tom Parker, impose che Elvis non facesse mai bis. “Leave them wanting more”, diceva. E così, nacque una frase entrata nel mito: alla fine della scaletta, il Colonnello faceva riprodurre una voce registrata che diceva “Elvis has left the building”. Elvis è andato via, è inutile che restate ad aspettare. Game over. Niente revival. Il sipario cala, punto. Tutti a casa.

Anche l’altro Elvis, il signor Costello, scelse la strada opposta al compiacimento: alla fine dei suoi concerti faceva sparare rumore bianco dagli altoparlanti. Una tempesta sonora che diceva: “Non ci sarà altro, se non andate via peggio per voi”.

Tornando indietro nel tempo, Niccolò Paganini non concedeva mai il bis. Lo canta persino Tropico nella canzone Contrabbando. La frase “Paganini non ripete” è diventata così iconica da essere ancora oggi presente nel linguaggio contemporaneo.

E i Beatles? Non è che non volessero. È che non potevano. Appena finiva il concerto, venivano caricati in una macchina e portati via a tutta velocità, inseguiti da orde di fan. Un bis, per loro, era logisticamente impossibile.

C’è poi chi ci ha giocato. Per molti anni i The 1975 hanno lasciato fuori dalla scaletta ufficiale la loro più grande hit: la canzone Sex. Il risultato? Orde di fan che urlavano “We want Sex!” nel buio.

E poi arrivò lui. Il Boss (dei bis)

Bruce Springsteen. Se il bis era una nota aggiunta, lui lo trasformò in una sinfonia a parte. Un’odissea.

Non è un’esagerazione dire che The Boss ha riscritto il significato stesso del bis. I suoi concerti diventano maratone di quattro ore, in cui la band va via e ritorna in un grande caos organizzato. E poi ancora. E ancora. A volte, i suoi bis cominciavano dopo tre ore di spettacolo. Tre ore! Quando il pubblico, più che urlare “ancora!”, dovrebbe chiedere: “Hey Bruce, ma non hai pietà di me tu?”

David Segal, autorevole penna del Washington Post, lo disse chiaramente: “Lasciavi un concerto di Springsteen esausto, e avevi l’impressione che lui uscisse in barella”. Insomma Springsteen fece del bis non una concessione, ma un dovere. Una promessa.

E con lui, tanti seguirono. Prince, il Genio di Minneapolis, arrivava a fare fino a sette bis in una sera. I The Cure ne facevano cinque. Era diventato uno spettacolo nello spettacolo.

Quando il bis smette di essere sorpresa e diventa clichè

Col tempo, però, la spontaneità si è smorzata. Con gli show sempre più coreografati, pieni di luci, sequenze e click, effetti e scenografie digitali, il bis ha smesso di essere un colpo di teatro. È diventato parte della scaletta. Ineluttabile. Forse addirittura prevedibile.

Billie Eilish, ad esempio, esce di scena senza aver cantato bad guy. Ma nessuno si illude che sia finita. Due minuti, e rieccola. La canzone c’è. Sempre. Il bis, oggi, è una comfort zone. Un finale rassicurante per far uscire il pubblico col cuore pieno. Ma è anche un clichè, una tradizione, un rituale. 

I bis sono oggi parte integrante delle scalette degli artisti, che piazzano il gran finale con le canzoni più attese dal pubblico. È un modo per mandare tutti a casa felici, costruendo un climax emotivo che riempie la pancia a tutti.

Il bis che ci meritiamo

Eppure, c’è chi cerca ancora la magia. Jimmy Buffett, ad esempio. Dopo un primo bis standard con la band, usciva di nuovo. Da solo. Chitarra acustica. Una ballata intima. Una perla per i fan veri. Un sussurro finale.

Lo stesso fa Damien Rice, per quanti di voi hanno avuto il piacere di vederlo dal vivo anche in Italia. Dopo il concerto non è insolito ritrovarselo all’esterno del teatro, armato di chitarra acustica e in mezzo ai fan.

Perché sì, c’è un modo per salvare l’incanto. Basta che il bis sia autentico. Sentito. Non obbligato. Come quella band di ragazzi del liceo che, anni dopo, tornò a suonare per un’ultima volta. Avevano preparato tutto. Tranne un bis. Non ci avevano nemmeno pensato. E quando il pubblico iniziò a urlare “One more song!”, rimasero spiazzati. Suonarono una canzone già fatta. Due volte. E tornarono tutti a casa felici e contenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *