Le regole della street credibility: essenza o apparenza?

Si dice che l’abito non faccia il monaco ma questo evidentemente non vale nella scena rap italiana. O almeno, non per Guè Pequeno che in una sua recente intervista a Rolling Stone per la promozione dell’uscita di Mr Fini, il suo ultimo – pazzesco – album, ha parlato apertamente di quello che pensa della scena rap italiana attuale. In un momento storico come questo, in cui l’attenzione mediatica dribbla esausta tra virus, razzismo, omofobia e i disastri ecologici che attanagliano il pianeta, sembra incredibile ma vero, c’è ancora chi ha il tempo per discutere su quale sia, e se ci sia davvero, una street credibility: dove questa inizi e dove finisca.

Guè non le manda a dire verso molti dei nuovi nomi della scena, complice una lista della spesa tirata fuori da Rolling Stone che gli chiede una definizione per ciascuno.

Il rapper parla di stile e street credibility, in particolar modo riferendosi al modo di vestire di Ghali: “un artista che va in giro vestito da confetto può andare bene per una sfilata ma non ha grande credibilità di strada” – ha dichiarato Guè durante la sua intervista. “Cioè non è Stormzy: il tipo in Inghilterra non va in giro vestito da ananas. Io non sono razzista né omofobo ma vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere, che poi almeno fosse gay. Boh, sono robe assurde”.

Per intenderci: la street credibility o “credibilità di strada” è quell’appartenenza alla strada – appunto – che forgia l’artista e la sua musica, una cosa innata che vive il suo orizzonte creativo in quello che conosce e vede ogni giorno.

Insomma, in questa ottica la strada fa il rapper e il rapper se ne ciba e ne trae ispirazione. La domanda da porsi, secondo noi, non è cosa sia la street credibility, quanto se questa dipenda e sia determinata davvero dall’abbigliamento. Non limiterebbe, questo pensiero, la liberta d’espressione di ognuno, che è insita nel concetto di musica e di arte?

Ne abbiamo parlato in direct, privatamente su Instagram, con alcuni amici, esperti di cultura hip hop e rap, per avere un confronto sano e provare a capire la versione di chi, in queste dichiarazioni, non ci vede niente di male e al limite si fa una risata.

Il mondo del rap ha delle regole non scritte di credibilità e cultura: se ti vuoi rifare a quelle allora ci stai dentro. Nel senso, il rap da sempre è machista, culturalmente, non dall’altro ieri dopo che Guè Pequeno ha detto una certa frase. È vero, non possiamo farci niente, ed è assolutamente vero che le cose non sono cambiate magicamente dopo questa intervista a Rolling Stone.

Ma ora, ora nel 2020, le cose stanno cambiando. Se da un lato nessuno si offende veramente quando uno dice bitch e troia nei testi, chiamiamola licenza poetica, sono lyrics (è come se ci arrabbiassimo con lo zio ubriaco che ai pranzi di famiglia racconta le barzellette porno); dall’altro, grazie alla lotta per i diritti umani, per le pari opportunità, per la liberta d’espressione, il femminismo e chi più ne ha più ne metta, anche questo rap machista si sta modificando. Basti guardare a mostri come Tyler The Creator e Massimo Pericolo per rendersi conto che non esiste solo un tipo di credibilità standard per farsi rispettare, nel timore di sgarrare e di essere derisi su un magazine nazionale.

Ecco, qui non ci stiamo: ci sembra proprio di rivedere il bullo del liceo che ci addita durante l’ora di educazione fisica per le scarpe da ginnastica rosa. Solo più in grande, solo con milioni di streaming in più, solo con le catene d’oro al collo.

Spiegandoci meglio. Conosciamo la storia di Guè Pequeno, è iconica la sua tuta completamente dorata che spesso ha indossato durante le puntate di The Voice dove partecipava come giudice insieme ad Elettra Lamborghini, Gigi D’Alessio e Morgan. Cosimo Fini si è diplomato in uno dei migliori licei di Milano e ha alle spalle una famiglia abbiente: non conosciamo il lato più personale di questo artista ma sappiamo che rilasciando queste dichiarazioni sceglie di criticare non la musica, non qualcosa di detto o di non detto, ma semplicemente una visione estetica, quella di Ghali, di cui conosciamo alcune esperienze legate alla strada e alla povertà combattuta nel suo passato.

Ed è vero: l’immagine di Ghali è più fluida di quella tradizionale e meno machista, spesso a capi maschili ne vengono accostati altri femminili. È uno stile, il suo, ibrido, a cavallo tra trap e pop, che si discosta in modo concreto dalle “regole della street credibility della tradizione rap”.

Noi oggi ci chiediamo: chi ha fatto queste regole? Sono regole create da uomini? Di che età? Quando? Sappiamo solo che “sono regole non dette”.

Il rap ha bisogno di un vestito specifico per essere rap? È una domanda che, a nostro parere, ha molteplici risposte nel momento in cui ci si addentra nel campo sconfinato che è quello degli ultimi anni. Ghali, destinatario dell’invettiva di Guè, additato per la sua immagine, ci fa tornare a quella constatazione ormai datata per cui “il rap non è un paese per diversi” qualunque sia questa diversità, soprattutto in Italia, in cui sembra di essere fermi agli anni ‘90, alle tag sui muri e le tute acetate.

La street credibility è un concetto troppo complesso, retaggio di una cultura, quella hip-hop troppo grande per trovare una sua soluzione in poche righe. Ma la risposta alla nostra domanda pensiamo sia riassumibile nella figura di spicco del rap degli ultimi anni, Massimo Pericolo che, nonostante mostri evidentemente l’appartenenza alla strada, si esibisce con orecchie da gattino e pantaloni zebrati.  Anche lui viene punzecchiato nella pluricitata intervista su Rolling Stone, dove il rapper viene maliziosamente accostato da Guè alle droghe consumate nelle roulotte apparse nel suo primo videoclip.

Per continuare il nostro discorso sullo stile, allontanandoci dai confini nazionali, si trovano tanti nomi che potremmo unire alla causa.

Il già citato Tyler the Creator, ma anche Childish Gambino o Lil Nas X che giocano con grande fluidità di genere nell’abbigliamento con look iconici che vanno soltanto ad incrementare il loro personaggio, non certo a sminuirlo. E rappano, eccome: provate a dare un ascolto e un’occhiata ai numeri che macinano ogni ora, anche mentre state leggendo questo articolo.

È un dibattito caldissimo quello di quanto sia importante accettare la propria parte di femminilità come uomini e mascolinità nelle donne e di cosa essa comporti.

Se una donna assume atteggiamenti più mascolini è vista come una persona più forte, più determinata, più. Eppure, ancora, non si accetta mai la parte femminile dell’uomo, la sua sensibilità ed il suo estro: queste cose lo rendono sempre un meno. Debole, distratto, meno forte. Questo accade già tutti i giorni ed è stancante: serve veramente che ce lo ricordi anche un artista di fama nazionale, uno dei migliori rap italiani preso come esempio da tantissimi di noi? Forse no. Rispettiamo Guè Pequeno, perché oltre ad essere un grande rapper, è uno che non le manda a dire e, a scapito di tante polemiche, dice sempre come la pensa: solo siamo sinceramente stanchi di questa chiusura mentale per cui ciò che va oltre la linea definita (di nuovo: da chi?) sia sbagliato, attaccabile.

Una matrice che può sfociare in ulteriori mimesi dei giovanissimi, rinvigoriti da quanto dichiarato dal loro idolo. Ne parla in un suo post Instagram Cathy La Torre, avvocato ed attivista, che sottolinea come questi comportamenti possano indurre, chi è attaccato, a scelte forti, a volte definitive.

È davvero il 2020 anno in cui si può ancora parlare solo dell’immagine e non del contenuto, del contenitore e non del messaggio?

Ma soprattutto, una persona ed un artista come Guè Pequeno, la cui bravura non verrà mai messa in dubbio, ha davvero bisogno di attaccare i giovani suoi colleghi, senza remore, per promuovere un disco che è già di per se un ottimo lavoro? È forse solo una trovata per creare ancora più hype nei confronti di un lavoro che – comunque e a prescindere da tutto – avrebbe avuto risonanza?

Ogni giorno si lotta e si combatte affinché i pregiudizi di genere cadano, perché si esca da un immaginario retrogrado, lo stesso per cui i maschietti giocano con le macchinine e le femminucce con le bambole, da questi dogmi che hanno vissuto il loro tempo ed è ora che scompaiano. Il binomio rap e mascolinità ha portato già non pochi ostacoli per tutti coloro che volessero approcciarvisi da orizzonti diversi: non solo le donne, ma anche soggetti che vedevano nel genere un modo diverso di esprimersi, e questo è sotto gli occhi di tutti. Essere un diverso, in questo mondo, è già un problema senza che chi indossa la corona lo sottolinei, ma soprattutto è limitante per tutte le potenzialità che questi nuovi artisti potrebbero apportare a questa scena.

Tony Montana è morto. Non c’è più quell’esigenza – o meglio, non c’è più solo quell’esigenza – di vivere il rap da gangster macho e arricchito, un po’ romantica, un po’ demodé.

Bisogna rendersi conto che questa oggi è solo una delle mille sfumature del rap, non la regola. Se quella stessa copertina di Rolling Stone in cui il rapper è una statua che dei manifestanti cercano di tirare giù non fosse già di per sé una ridicolizzazione ironica del personaggio, penseremmo che sia lo stesso artista ad auto sabotarsi.

Non è più possibile ridicolizzare e demonizzare chi non si attiene a questo immaginario, ora più che mai statico se visto nell’ottica di questo genere di dichiarazioni. Il rap non è e non può più essere un linguaggio univoco, che si esprime per immagini fisse, per topoi classici incisi su marmo, ma ha bisogno di rinnovarsi e alimentarsi del nuovo ed è quello che già sta facendo. È una cultura che cambia, si confronta e si rafforza ogni giorno. I ragazzi arrivano dalla strada, dalla scuola, da case di famiglie benestanti in cui non si rispecchiano. Trovano una risposta, un fare di esprimersi nuovo, una libertà, un modo per dare forma alla loro sostanza. Lasciamo che, almeno in questo, non ci siano regole e nessuno debba più dire a nessuno cosa è giusto fare e cosa no. Il re è morto, viva il re.

L’unica regola? Non ci sono regole.

Di Mariarita Colicchio e Giorgia Salerno

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