Io della musica non ci ho capito niente, il secondo album di Giulia Mei, a sei anni di distanza dal precedente Diventeremo adulti, ha il pregio di mostrare la cantautrice in tutte le sue sfaccettature. La scrittura di Giulia Mei è precisa, attenta e minuziosa, nei testi e nei suoni. Le metriche ricordano da vicino De André (l’incedere di Bandiera è il medesimo di Volta la carta), le scelte lessicale e i toni richiamano Maria Antonietta in una versione meno punk.
Nel disco c’è spazio per il siciliano, anzi, il palermitano, come lei stessa tiene a precisare, lingua che ha approfondito grazie alle amicizie di gioventù. Non solo in Un tu scuiddari, con Anna Castiglia, ma anche in Ȃ picciridda mia, una delicata e tenera ninna nanna. Nel disco, c’è poi Giulia Mei musicista di formazione accademica (è laureata in pianoforte e didattica della musica al Conservatorio), soprattutto negli intermezzi strumentali, conditi con un pizzico di ironia a stemperare – A casa mi veniva, per esempio, è la frase che diceva sempre al suo insegnante, quando sbagliava i pezzi che doveva imparare come compito. E poi, c’è Giulia Mei nella versone più sincera, che parla del rapporto con i genitori, dell’assenza del padre, che cerca di esorcizzare le delusioni d’amore provando a riderci su.
Soprattutto, però, quest’album è scritto, suonato e cantato da una donna di trent’anni, che affronta una serie di temi tipici e ricorrenti nelle donne di trent’anni.
Bandiera, il brano manifesto, ne è un esempio lampante. Il punto, in queste situazioni, è che se questi brani vengono ascoltati e compresi solo dalle donne, poi il sistema non cambia. È importante, ed è necessario, che queste canzoni risuonino anche negli uomini, così che possano prendere più consapevolezza e cercare di capire un po’ di più alcuni pensieri che, vuoi per pigrizia, vuoi per superficialità, spesso tendono a minimizzare.
Se come spesso diciamo, e come molto crediamo, la musica può smuovere le coscienze, questo disco può insinuare negli uomini un minimo di dubbio e un’idea di mascolinità diversa. Non è un manuale di femminismo, sia chiaro, e non è nemmeno il punto di partenza per una rivoluzione. Quest’album è il diario aperto di una donna di trent’anni che racconta più o meno tutto quello che pensa. Ed è un disco che va ascoltato senza sminuire né giudicare.
Per raccontarlo, abbiamo deciso di rispondere a cinque domande, e soprattutto abbiamo deciso di farlo in due.
Carmen, una donna di trent’anni, a cui il disco parla in modo molto diretto, descrivendo situazioni che ha vissuto e che ben conosce. E Filippo, un uomo di quasi trent’anni, che vive quest’album come una narrazione di una persona terza. Non si intona col suo vissuto, ma probabilmente è un modo per provare a comprendere qualcosa in più su quello delle altre persone.

La canzone preferita
Filippo: Genitori. In questo brano, Giulia Mei racconta la complessità del rapporto con i genitori. A partire dai divari adolescenziali, fino alla presa di consapevolezza da adulti che forse certi angoli potevano essere smussati, e si poteva sfruttare un po’ meglio il tempo a disposizione. È uno dei pochi brani del disco alla chitarra, e probabilmente è il pezzo metricamente meglio riuscito, con le liriche che scorrono melodiche, e rimangono estremamente fluide nei passaggi strofa-bridge-ritornello.
Carmen: indiscutibilmente Genitori. Questa canzone sembra essere stata disegnata sulla mia sagoma, stile scena del crimine. E mi turba al punto che sono nell’intermezzo tra lo sgomento nello scoprire che i miei demoni non sono così unici come pensavo e la consolazione di sapere che sul fiume Acheronte potrei incontrare Giulia Mei.
La canzone dove pensi “ma sai che questo disco…”
Filippo: Drammaturgia. Dopo l’intro lisergica con Rodrigo D’Erasmo e Bandiera, questo è il terzo pezzo. Una ballata molto classica, al pianoforte. Che però cambia la traiettoria del disco, facendolo confluire verso una canzone d’autore sicuramente molto tradizionale, ma ben eseguita. Dopo due brani molto sperimentali, trovare questo livello di classicismo è quasi rassicurante.
Carmen: Ȃ picciridda mia. Senza estremizzare troppo ho cercato di incasellare questo disco in una parola contenitore, ma non ho remore ad ammettere che per me il lavoro di Giulia Mei è psicologico, antropologico, sociologico e femminista. In particolare in questa canzone siciliana mi è cara perché mi ha fatto pensare a mia nonna, a quell’attenzione e a quella premura che nel tempo sono rimaste diventando negli anni una sorta di premura verso un mondo troppo ostile, pericoloso, angusto. Eppure, se potessi tornare indietro darei tutto per sentire mia nonna che mi dice stai attenta alla strada prima di attraversare.

La canzone da mandare agli amici per far capire chi è Giulia Mei
Filippo: Ȃ picciridda mia. Come dicevamo nell’introduzione, la personalità di Giulia Mei è sfaccettata. Questo brano racchiude il palermitano, il pianoforte, e la struttura canzone classica. Tra tutti i pezzi del disco, è quello dove si concentrano la maggior parte delle linee guida della produzione della cantautrice.
Carmen: Bandiera, un manifesto in senso letterale da cantare a squarciagola, soprattutto quando sono in ufficio e mi dicono “Carmen, abbassa la musica, si sente da qui”. ABBASSA LA MUSICA?!!
La canzone che non ti aspetti
Filippo: Io della musica non ci ho capito niente II (feat. Rodrigo D’Erasmo). Forse un pezzo incomprensibile, nel disco, fino a che uno non la sente live, suonata con Vezeve e Dario Marchetti. E lì si spiega tutto.
Carmen: Mio padre che non esiste, perché mio padre non esiste, se n’è andato quando avevo due anni e mezzo e io mi sento ancora come quella bambina che si chiede perché papà non chiama e sogno che torna, che era solo un brutto sogno, che in questo mondo c’è posto anche per lui, per chiedersi come sarebbe stato se fosse esistito un po’ di più…
La canzone che mette d’accordo tutti
Filippo: Bandiera. Alla fine, se ascoltiamo questo disco e andiamo a sentire Giulia Mei in concerto, nella maggior parte dei casi, è perché è partito tutto da qua.
Carmen: Un tu scuiddari. Abbellita dall’indecente talento di Anna Castiglia, è una canzone scomoda, ironica, irriverente, quasi fastidiosa, una canzone per ridere, una canzone per chi si indigna ma se poi vede uno sconosciuto steso per terra, lo scuote col piede per sincerarsi che sia ancora vivo.
Te lo ricordi? Giravano a scuola con i capelli portati in avanti
Adesso organizzano un sacco di eventi e non hanno intenzione di invitarti
“È un loro problema”, ti sei sempre detto, ma sotto sotto ti rode il culo
Vorresti essere come loro, che loro dicessero che sei qualcuno
È una dinamica che si ricarica come fai tu con il cellulare
Lo scrolli da un’ora seduto in un angolo, perché nessuno ti viene a parlare
È solo che sbagli interlocutore, la gente che cerchi non ha argomenti
Fa scena muta da tipo sempre, ha preso il debito in sentimenti