“La voce del padrone”: Franco Battiato e l’arte di propagare il proprio suono nel mondo

“Mancavano 4000 copie al milione e, sai, le comprò tutte lui”

Inizia così il viaggio del nuovo documentario La voce del padrone, uscito nelle sale lunedì scorso e in programmazione fino al 4 dicembre. Esattamente una settimana di tempo per riscoprire Franco Battiato attraverso la sua, di voce, ma anche quella degli altri, siano essi complici d’incisioni discografiche memorabili o semplici testimoni di un’amicizia sincera. C’è Alice, c’è Morgan, c’è Caterina Caselli, c’è la band che quarant’anni fa registrava con Franco l’album che dà il titolo non soltanto al documentario ma anche ad una nuova era nella musica “leggera” italiana. Perché è leggerissima la musica di quel disco, talmente leggera da farci levitare fra note cosmiche e testi surreali, capaci – non si sa ancora come – di sconvolgerci, mantenendo però un’atavica quiete di fondo.

Preceduto da L’era del cinghiale bianco (1979) e Patriots (1980), due lavori che già lasciavano presagire la portata strabiliante del terzo, La voce del padrone (1981) arriva dopo anni di sperimentazione e di underground, coronando Franco Battiato e la sua voglia di successo. Un successo scelto di punto in bianco, attentamente, mixando fra loro cori di madrigalisti, sintetizzatori, parti orchestrali e la sua inconfondibile voce, di una forza flebile e potente insieme. Nel 1982 lo cantano tutti quel disco, per tutta l’estate, e vende sorprendentemente un milione di copie: primo caso in Italia.

Grazie a questo documentario sappiamo dalla voce di Alberto Radius, chitarrista nel disco e durante la tournée, che le 4000 copie mancanti al milione le comperò proprio Franco, tramite amici: troppa la golosità di arrivare a quel traguardo unico. Un traguardo che proiettò Battiato direttamente nell’olimpo della musica.

A partire da quell’82, verrà chiamato da tutti “il Maestro”.

Un titolo nel quale non si adagiò mai pomposamente, preferendo invece sempre il gusto della scoperta. Scoprì, ad esempio, il biliardo, la tessitura e la pittura, appassionandosene fulmineamente e leggendo a riguardo tutto il leggibile, tutto lo studiabile.

“Era così” – ammette Carmen Consoli, intervistata nel film – “non appena qualcosa lo appassionava, vi si immergeva anima e corpo, approfondendone ogni aspetto”.

Lo studio e l’immersione è ciò che da sempre ha caratterizzato anche l’approccio di Franco alla musica, universale ma empirico insieme.

“Ricordo” – racconta Morgan – “di aver avuto la fortuna di vederlo comporre in studio. Non si sottraeva alla tecnologia, anzi: credeva fermamente che il progresso arricchisse il modo di fare musica. Lo vidi lavorare alle canzoni su ogni singola nota, studiandone la tonalità e aggiustando il tiro con una precisione e una meticolosità che non avevo mai provato, che non faceva parte del mio approccio e che imparai in quel momento”.

È lo stesso Morgan che, chiamato ad eseguire per il film Segnali di vita, si confonde, sbaglia parola, si corregge e prosegue con maggiore naturalezza. “Cantare Battiato è così, – dice poi – puoi perderti, ma è come se la musica ti riportasse dentro: una pura magia”. Come magica è la capacità di Franco nello strutturare i propri brani, dove niente è lasciato al caso e tutto lo è al contempo.

Un artista curioso, ironico e colto, impegnato e disimpegnato, caratterizzato da un modo di essere privo di qualsivoglia eccesso o forzatura.

Battiato era di fatto figlio di una sintesi: l’andata e ritorno fra Catania e Milano, il voler tornare sfatando i luoghi comuni, mostrando di essere perfettamente integrato in entrambi i mondi. Non a caso, nella sua poetica, c’è una contaminazione totale che parte dalle influenze arabe per arrivare a quelle della filosofia classica, passando per gli infiniti mondi di uno spazio futuribile.

“Anche la Sicilia” – aggiunge il regista de La voce del padrone, Marco Spagnoli – “ha avuto la sua precisa influenza in questo. Terra di miti, dove le altezze del vulcano e le profondità del mare s’incontrano dando suono a vibrazioni imprevedibili e stupende. Una delle colpe, minori, della mafia è quella di hackerare la cultura siciliana in funzione delle sue storie. Di fatto, distrae il pubblico dalla grandezza dell’isola”.

Il pubblico del docufilm “La voce del padrone, invece, non si è lasciato distrarre nemmeno dai titoli di coda.

Cullati dalle note de La cura, nessuno di noi ha lasciato la sala prima che lo schermo si fosse spento. È l’incanto paradossale di una canzone d’amore che non verbalizza mai questo termine nel suo testo. Ma lo fa nelle corde che riesce a toccare ogni volta in ciascuno di noi. “Tante le teorie sul destinatario di questo capolavoro – commenta Caterina Caselli – Io personalmente credo che Franco lo canti alla sua anima: allo stesso modo, ciascuno di noi può fare altrettanto”.

Un’anima che, interrogata nel 1988 da Vincenzo Mollica su che cosa volesse lasciare di sé al mondo, rispose solamente “Il mio suono”. “Quello che hai scritto insomma” incalzò Mollica. “No, non necessariamente: il suono è una vibrazione di quello che sono” concluse Franco. Ecco allora che questo film è una vibrazione: quella di un sasso fatto rimbalzare nella quiete di uno specchio d’acqua. Ognuno di noi è un’onda sonora simile a quest’ultima, capace d’increspare le acque del mondo, propagarsi nella vita degli altri e attraverso la propria. L’insegnamento ultimo di Franco Battiato è allora forse soprattutto questo: l’arte di propagare il proprio suono nel mondo, avendo “la cura” di farlo bene.

 

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