Emma Nolde: navigare, cadere, rialzarsi

 

12 ottobre 1492. Cristoforo Colombo, dopo oltre due mesi di navigazione scorge la costa di quella che lui chiamò Isola di San Salvador. L’idea di base del navigatore genovese è nota ai più: cercando un passaggio agevole e più veloce per i ricchi scambi commerciali con l’India, scoprì quello che era in realtà il continente americano.

Colombo dedicò alla preparazione di quel viaggio la maggior parte dell’esistenza: la sua giovinezza, la sua età adulta (aveva 41 anni nel 1492) furono una lunga ed appassionata pianificazione di quel sogno meraviglioso. Mappe, disegni, racconti mistici e fantasiosi: tutto era per lui fonte di curiosità. Tale fu la sua caparbietà nel cercare sponsor per il suo progetto che non a caso gli storici parlano di “Battaglia di Colombo” nel raccontare il suo peregrinare per le corti di mezza Europa. Dar vita al proprio sogno: vedere i propri angeli e i propri demoni in carne ed ossa. Ammutinamenti, sabotaggi, l’eresia di un viaggio contro idee e certezze del suo tempo. Ecco cosa aveva sconfitto Colombo nel toccare terra.

Il viaggio di Emma Nolde, la sua personale trans-navigazione negli oceani più neri dell’anima che le è stata donata, ricorda molto le ferite di Colombo. Non a caso, non vi è alcuna meraviglia nell’apprendere che il suo album di esordio ha come titolo “Toccaterra”.

Una gestione delle proprie emozioni fatta con straziante minuziosità, uno “scrivi e cancella” talmente energico da rendere il foglio strappato e micronizzato. Come lei ha giustamente dichiarato “la musica è la migliore espressione che conosca”. Sicuramente è così: la sua urgenza narrativa emerge anche ad un ascolto disordinato, superficiale. Un’urgenza che coinvolge tutti i sensi delle giovane artista toscana. Emma nel suo percorso è capocantiere, marinaio, consigliere spirituale, specchio e frugale pasto. La volontà di raccontarsi è così forte che viene levigata ad ogni singola nota, accordo, testo.

La musica come espressione, come codice di navigazione nel mondo. La musica come preghiera e flagello, colpa e redenzione.

Una racconto musicale dovrebbe raccontarci molto di un’artista. Dovrebbe invogliarci a comprare un disco, ad ascoltarlo su Spotify. L’artista sembra essere preda sacrilega delle nostre perversioni conoscitive: ne mangiamo e ne abusiamo. Nel caso di Emma Nolde, il panorama sensoriale è completamente ribaltato. Alle cene dei parenti c’è quasi sempre la cugina lontana che non riusciamo a mettere a fuoco ma che alla prima sillaba ci conquista. Sembra parlare di mondi lontani, di esperienze incredibili, di dolori che non riusciamo a decifrare. Alla seconda sillaba Lei non ci ha ancora guardato negli occhi ma oramai pendiamo dalle sue labbra: vorremmo abbracciarla ma lei continua a parlare, infierendo contro se stessa e noi.

Otto tracce: otto piccole isole che disegnano il viaggio di Emma. Stravolgendo la sequenza scelta nella pubblicazione ufficiale, Toccaterra può essere diviso ufficiosamente in tre rotte, accomunate e guidate da un unico capitano.

Esatto. Come La Niña, la Piñta e la Santa Maria.

Cosa è una rotta? È un percorso condiviso, uno sforzo narrativo basata su uno spasmo immediatamente riconoscibile nel testo. Un fil rouge che lega parole e sfondi.

Alla prima rotta (ufficiosamente ribattezzata “cardiaca”) appartengono (male), Resta, Ughi.

(male) è il nostro primo incontro con Emma Nolde.

È un abbraccio di spalle, un caldo maglioncino con cui approcciarci all’autunno che arriva. Imparare a ballare male significa liberarsi dalle convenzioni e dagli sguardi malvagi. Emma ha le mani tagliate dai graffi di un adolescente che si affaccia al mondo: la luce tetra che le spegne gli occhi sarebbe capace di disperderla come un mucchietto di foglie. Ma il ballo è un’energia catartica, una leggerezza che non è sinonimo di frivolezza. Imparare a ballare sotto piogge acide, all’ombra di radiazioni emotive nefaste. “…a guardare dentro occhi spenti e ridere…a sentirti vuota senza mai cadere…” è un atto di accusa e di assoluzione: siamo quel che decidiamo di vivere e interiorizzare.

Resta apre il compasso di (male).

Dall’egocentrismo libertino emotivo si passa a piccole mani tese verso un anima bella che possa farci sentire meno il peso della solitudine. Tra i flutti di una società che pretende legami affettivi perfetti e senza perplessità, Emma racconta un gattonare cardiaco di rara intensità. La difficoltà nel lasciarsi andare, la necessità di prendersi del tempo per picconare i propri muri. “Chi vuole resta” è la mano tesa che fino a poco prima si batteva il petto sanguinante. La quotidianità è dipinta nelle azioni del leggere temi e nel conforto dei problemi. C’è qualcosa di profondamente emozionante nel processo di crescita di un piccolo fiore nei buchi dell’asfalto. È devozione, senso di protezione.

Ughi, dedicata ai nonni, è la mia traccia preferita.

Sia per potere descrittivo, sia banalmente perché l’interpretazione della giovane artista toscana è superba. Un racconto in piena regola, una chiacchierata accarezzando la fronte della nonna chiedendole scusa e protezione. Emma è nuda: non ha sovrastrutture e il suo lancio non prevede paracadute. Negli occhi assorbe ciò che è stata e quello che ha scelto di essere. È il peso del DNA che si lega alle esperienze dell’oggi: la narrazione è pulita ma devastante nella sua chirurgica esplosione.

Un po’ bambina, un po’ donna: ascoltando le tre tracce in sequenza sappiamo che Emma Nolde ha già spiccato il salto. Si è guardata indietro, ha teso le mani e ha già sfidato negli occhi il Sole. La rotta del cuore, rosso come uno sguardo timido e un accenno di rabbia, è lo specchio sporco di una casa di campagna. Guardarsi oggi per capire l’eleganza di un gesto lontano, un girasole da proteggere, i ricordi da tener stretti.

La seconda rotta è formata di Sorrisi viola e Nero ardesia. Amichevolmente, può essere indicata come la rotta delle mani.

Le due tracce aprono uno squarcio sulla provincia, sul brodo primordiale che ha cresciuto e nutrito Emma Nolde. Parlare del bar sotto casa, della birreria e delle piccole fallimentari esperienze sembra essere il primus movens per ogni novello artista. Causa e dolo di grandi fallimenti e grandi successi, è sempre difficile da gestire. È un grande banco di prova: non solo per il pubblico ma soprattutto per se stessi. Non si può inventare qualcosa e spacciarla per un pezzo di cuore. Due tracce, dicevamo. Ma la piattaforma di lancio è diversa.

In Sorrisi Viola siamo, pronti/via, al limite.

Un testo ruvido, uno spasmo muscolare di chi sta per urlare. Il bar, la cameriera che porta da bere, la voglia di distruggere tutto. Quale è l’obiettivo di questa catarsi? L’elevazione delle proprie paure, la frenesia che porta al limite e permette contemporaneamente di superarli. A 16 anni non possiamo sapere chi saremo e di certo non siamo certi di quel che siamo. È per questo che spesso i sedici anni sono una età quasi evanescente. Possiamo girarci, sentirci ancora bambini e restare inchiodati al suolo. Svegliarsi la mattina e non riconoscersi. Non riconoscere se stessi, non riconoscere gli altri a cui tendiamo la mano. Anche un sorriso appare sanguinante, dai colori innaturali.

Nero Ardesia è una grande lavagna su cui abbiamo il bisogno di scrivere le nostre coordinate.

Il tema dell’allontanamento avvolge la traccia precedente: lo scappare, associato allo scalpore che tali scelte hanno sulla nostra psiche è qualcosa a cui tutti abbiamo pensato almeno una volta. Le mani sono però tese, come in un abbraccio ad un rovo. Scappiamo e riempiamo i nostri vuoti: insieme è possibile. La cura stilistica del testo è maniacale: l’utilizzo di parole come “fluttuare, respira, risentire, dimenticare” sembrano quasi tatuaggi. Tatuaggi colorati, di quelli difficili da eliminare. Ed è qui che si gioca la partita più grande per Emma Nolde. Essere credibili alla sua età è difficile ma non impossibile: possiamo sentirci parte del meccanismo, possiamo cantare le sue canzoni, eviscerarle ma non è possibile non esserne completamente inghiottiti. E non perché siano testi migliori di altri ma perché semplicemente Emma è i suoi testi. Ughi sono le sue coronarie, Nero Ardesia è la sua corteccia cerebrale. E così via.

L’ultimo orizzonte, la rotta dei piedi, è composto da sfiorare, Berlino e Toccaterra.

Sfiorare, traccia d’apertura del disco, in realtà comincia con un addio: “Scappando dagli altri”.

Tema già utilizzato ma che non entra nel libro della rotta delle mani per l’universalità del suo messaggio. Il nascondiglio di Nero Ardesia era una stanza, qui è il mondo, l’infinito. Il topos del viaggio si nasconde nel titolo stesso: (s)fiorare nasconde due storie. La prima è il passaggio, lo scorrere del tempo che ci cambia e altera percezioni sensoriali e cardiache. La seconda pagina è nascosta nello sfondo dei fiori che cadono. Metaforicamente racconta della perdita dell’innocenza, degli spazi che si allargano e dell’acqua che ci toglie il respiro. Emma Nolde gioca sempre sul bordo del baratro: dove saremo? Gli altri ci riconosceranno? Noi li riconosceremo?
Questo vale anche per le nostre emozioni?

Berlino è una traccia onirica.

Potessi farvi sentire io che mare ho nella mia conchiglia” è la chiavetta passpartout e la punizione dell’artista. Partire, magari restando anche fermi, immaginando la capitale tedesca come luogo in cui perdersi è quasi ammesso: quante volte dobbiamo spingerci oltre per sentirci vivi? E le nostre emozioni che impatto hanno nel resto del mondo? I nostri piedi macinano chilometri anche solo per un sorso d’acqua da regalare a labbra arse. Berlino è la meta fisica e il pacemaker emotivo nel viaggio verso un abbraccio sognato e ambito.
Se tutto è sotto i nostri occhi, se tutto è possibile ma foriero di dolore, tristezza, incomprensione una domanda sorge spontanea. Chi è l’artista? Un eccellente cavaliere capace di tagliare ogni sensazione, ogni rinforzo emotivo senza paura? O è lo schiavo romantico travolto dalle sue stesse pulsioni? Nell’affacciarsi alla primavera della vita, quanto ci costa ogni salto? Nell’osservare la spiaggia di San Salvador, quale sarà stato il primo pensiero di Cristoforo Colombo? Avrà riservato una preghiera anche per i mille fallimenti accumulati?

Toccaterra, traccia e titolo di questo viaggio, è la migliore delle risposte possibili.

Non è il pessimismo cosmico ne l’ambizione sterile di un positivismo spicciolo. Mi piace pensare ad Emma che salta sulle nuvole plumbee cercando un percorso sempre nuovo, concatenato con l’orma precedente. Capace di ammettere i propri incubi e di riconoscersi la capacità di raccontarli. Non sempre c’è bisogno di ammainare le vele, non sempre bisogna sfidare il mare. Nello sforzo ne esce sfinita e rafforzata.

Emma Nolde

Quali saranno le prossime tappe del percorso? Cristoforo Colombo, al ritorno in Spagna, pensò subito al suo prossimo viaggio. Nuove terre, nuovi pezzi di anima da raccontare. Abbiamo rivolto qualche domanda ad Emma Nolde, in attesa di una nuova rotta.

Le tracce contenute in Toccaterra coprono un ampio arco temporale della tua vita. Hai scritto, per esempio, Nero Ardesia a 15 anni. Non hai mai avuto paura potessero invecchiare o risultare, ai tuoi occhi, difficili da rivivere o essere dolorose? Le varie modifiche apportate come le hai gestite a livello emotivo? Guardare quei giorni con occhi attuali può essere un limite o un punto fermo?

Sì, ho avuto paura che potessero invecchiare, e per invecchiare intendo che potessero allontanarsi da me. In realtà questo ancora non è mai successo. Non cambiano neanche le immagini che mi evocano, è strano. Le cose si evolvono, cambiano, ma quelle parole mi riportano sempre nel periodo in cui le ho scritte, sono ancora e spero resteranno a lungo sensazioni tangibili. Sorrisi viola è nata proprio così com’è nel disco, ma ha fatto un viaggio piuttosto lungo per tornare ad essere nuda e cruda in quel modo. Avevo bisogno di ascoltarla diversa, è passata dall’r&b “jazzato” (un giorno penso la pubblicherò per fare capire, penso ne valga la pena) a un arrangiamento minimal stile Fka Twigs, per poi ritornare esattamente com’è nata, chitarra e voce, ricordandomi che non si può cambiare la natura delle canzoni: se nascono in un mondo, quel mondo va rispettato, funziona come con le persone.

In Resta racconti dell’attimo in cui si accende una luce, in cui quel “forse mi piaci” diviene il primo timido mattone di un cuore impaurito. Eppure viviamo in una società in cui tutto è veloce, fast-food. Spesso non abbiamo tempo di emozionarci e vivere con calma ogni prezioso istante. Come ti relazione al modo di vivere l’amore (con tutte le sue sfumature) ai giorni nostri? È davvero tutta una questione di foto da postare e amori da rendere eterni per un istante? C’è ancora la possibilità di un “forse mi piaci”?

Io sono stata quasi costretta a riflettere. Non riuscendo né ad aprirmi né a parlare niente si realizzava nel pratico, erano tutti pensieri che facevo da sola. Prendere decisioni confrontandosi solo con se stessi richiede tantissimo tempo per chi come me tende a ponderare anche le virgole nei dialoghi. Resta è stata la fine di un percorso durato quattro anni di silenzio assoluto. In quattro anni hai modo di riflettere tanto, anche troppo. Per rispondere alla tua domanda, non so in che modo io mi relazioni all’amore, cerco di essere più attenta possibile a quello che sento, ma di non essere impulsiva. Le foto da postare non le prendo neanche in considerazione, non servono a niente.

La vita di “provincia”, il bar con gli amici. A 19 anni spesso può essere un limite, un muro su cui spesso infrangersi. Eppure spesso, tra le maglie delle tue tracce, si intravede quella necessità di avere un porto sicuro. Come hai coniugato il sogno di artista con la potenziale possibilità di allontanarti da quello a cui più sei legata?

A me i confini stimolano molto, mi fanno paura la libertà assoluta e le mille possibilità. La provincia ti dà dei limiti da infrangere: c’è una sola cosa da fare la sera, se non ti piace devi trovare altro tu. A me piace vivere qui, rispetto e ammiro i miei coetanei che si trasferiscono per trovarsi e per trovare qualcosa che manca. In molti casi la difficoltà è quella di riuscire a non “sradicarsi”, a non lasciare che un ambiente diverso ti faccia diventare ciò che non avresti voluto essere. A me questo fa paura. Restare qua, nel piccolo, mi permette di poter andare più in profondità.

Guardandoti allo specchio oggi, quale è la prima cosa a cui pensi? Nero Ardesia è un foglio su cui scrivere e programmare il futuro. Quale è la prima parola che scriveresti su uno specchio osservandoti?

Scriverei sullo specchio “cresci”. Non voglio fermarmi, spero di non avere mai l’illusione che “sia abbastanza” (a patto ovviamente di non alzarmi neanche di un millimetro; un metro e ottantacinque è abbastanza, quello sì).

Ascolta qui “Toccaterra”, il disco d’esordio di Emma Nolde qui

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