FLWR e la sua teoria dei colori

Goethe, letterato immortale, era poco orgoglioso dei suoi scritti “poetici”: ciò che lo rendeva davvero fiero era la sua opera sulla “teoria dei colori” (1810). Egli affermava (in contrasto con le teorie di Newton) che non è la luce bianca a “nascere” dalla sovrapposizione dei colori, bensì il contrario. La luce, fondendosi con l’oscurità, crea i colori. Non è difficile comprendere come tali affermazioni, geniali e rivoluzionarie per l’epoca, avrebbero avuto un peso enorme sia dal punto di vista scientifico che filosofico/letterario negli anni a venire. Il concetto di una luce che fa l’amore con l’oscurità è ammaliante e suadente, nostalgico e terribile: i colori sarebbero l’espressione di un contrasto, una perdita, di anime meticce. Il mondo crea i colori in una aritmia emotiva che si ripercuote sull’umanità, sullo scorrere impassibile di gioie, amore e morte. FLWR, giovanissimo artista romano, lancia il suo nuovo lavoro “Stare” come fosse un concept album dedicato ai colori.

La lezione di Goethe sembra ben nota ad Alessandro che disegna un prisma partendo dalla prima traccia “Luce” e terminando con “Technicolor”. Le tracce intermedie (ognuna dedicata ad una diversa tonalità) rappresentano passaggi obbligati di un percorso intimistico e moderno, sussurrato e urlato con forza.

FLWR ha 23 anni, porta dentro di se le mutazioni della generazione post millennials

La capacità di raccontare si fonde con la modernità del linguaggio e del suono. E così deve essere, aggiungerei. Cambiano i social (dalla relativa staticità di Facebook si è passati già da un po’ alle anarchiche logiche di Tik Tok), cambiano le dinamiche comunicative (basta osservare l’esplosione delle video-chiamate) e cambiano le strutture musicali. Le barriere del “genere”, tanto care a chi scrive di musica approcciandola come fosse la cascata della coagulazione, sono cadute ormai da un po’ e l’approccio a tali latitudini musicali sembra sempre del tipo “eh ma il rock? Vuoi mettere l’indie pre-2010?” Ma smettiamola di sentirci preti nelle nostre cattedrali vuote. Definire è limitare. Non tutto ciò che è moderno spacca, non tutto ciò che è passato va mitizzato. Comprendere, analizzare e poi, se doveroso, criticare.

“Quello che non mi fa addormentare” (cit.)

Il tipo di scrittura di FLWR è tipicamente “italiano” intendendo con tale sfumatura una valorizzazione del sentimento amore e della vignettatura generazionale.

Ascoltando le varie tracce si avverte il fil rouge che le lega, come fossero pezzi di una storia comune. Se uno dei punti chiave della trap è stato quello di dipingere precise coordinate emotivo-dinamiche come le serate con sesso, droga e cash oppure il sogno del successo a mano armata (classificazione che oggettivamente non rende giustizia al movimento culturale e alle proprie basi musicali, cogliendone soltanto la maschera di bellezza senza analizzarne rughe e cicatrici), non è difficile ritrovare nel lavoro di FLWR una sperimentazione narrativa h 24.

Alessandro ci racconta la sua giornata, il suo mondo: chi è, cosa cerca, cosa vorrebbe. È in questa “onestà umile” che si fonda il muro portante di questo lavoro.

Nulla si crea e nulla si distrugge. Il movimento rap italiano ha subito la stessa sublimazione verso tematiche quotidiane, lo stesso hip hop ha smesso precocemente le catene sbrilluccicose per raccontare le periferie senza eroina e mutande strappate. Abbiamo pianto il funerale dell’eurodance scaricandone le colpe nell’ascesa dell’house. Poi ne abbiamo ritrovato le sonorità e le tematiche. La musica cambia, siamo noi che ci sforziamo di non cambiare. In questo, la trap non fa eccezione, mutuando percorsi e strategie dei fratelli più grandi. Il sangue lascia il passo ai cerotti, la strada si proietta in camere di solitudine. Abbiamo scalato le classifiche, per ritrovarsi soli con “tutti i soldi ancora lì” (cit.).

È tempo di ripensare i nostri schemi mentali, riscoprire una curiosità che ha permesso alla musica di fottersi (si, intendo proprio quello) generando figli bastardi che hanno tenuto la mano ai genitori nei momenti del bisogno. Il vento sta cambiando, si assorbono suoni e profumi. Stare in inglese significa “sguardo fisso” che presuppone un iride motivata e focalizzata sull’obiettivo. Stare in italiano significa pressappoco la stessa cosa, implicando testardaggine e obiettivi ben chiari.

Uno sguardo fisso su cosa? La musica, il successo, il cuore di una donna?

Se il fil rouge è rappresentato dai colori, quale è la prima parola a definire le singole tracce? Io per gioco ci ho provato. Definire come gioco e come spunto di riflessione.

Luce è la traccia della nudità. Nudità dinnanzi ai pensieri altrui, agli occhi amati.

Bianco è la traccia del rumore. Il rumore di una pagina che si chiude.

Giallo è la traccia della solitudine. Quella provata dinnanzi a bugie che scavano distanze, fossi.

Arancione è la traccia della sorpresa. Quella provata nel girarsi e sentire di botto il cuore nostalgico.

Rosso è la traccia della risolutezza. Arrivare, travolgere.

Rosa è la traccia dei sogni. Sogni e racconti che per un attimo ci han reso quasi eterni.

Verde è la traccia del cammino. Partire per ricordarsi o scoprirsi diversi.

Blu è la traccia dell’anarchia. Ribellarsi ai ritmi ectopici del cuore, protestare contro le convenzioni emotive.

Viola è la traccia dell’incubo. Senza riposo, senza una collocazione cosmica per quello che abbiamo perso alzando gli occhi al cielo.

Nero è la traccia dello shock. La corrente che scorre, elettrizzando e resettando senza cerotti.

Technicolor è la traccia del tempo. Quando capisci che è una variabile senza controllo quando si cerca un taglio d’occhi.

La mia traccia consigliata? Bianco.

Ascolta qui il disco d’esordio di FLWR

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