Simona Severini è una bomba ad orologeria dentro una nuvola di zucchero filato

«Ipotesi è la mia fotografia. Nasce da una serie di eventi casuali mista alla passione di tutte le persone che ci hanno lavorato. È stato registrato in due pomeriggi, voce e chitarra tutto insieme nella stessa stanza, lasciando gli errori, le cose belle e quelle brutte». Con queste parole Simona Severini, cantautrice milanese classe 1986, presenta il suo ultimo lavoro, uscito il 10 luglio, dal titolo Ipotesi (Virgin Records, 2020).

Il disco è composto da tre cover (I can’t make you love me di Bonnie Raitt, Love di Kendrick Lamar fest. Zacari e Una mano sugli occhi di Niccolò Fabi) e da tre inediti. Il sound è prevalentemente acustico ed è l’esempio lampante di come il connubio voce e chitarra possa bastare a smuovere importanti emozioni.

Simona Severini – Ipotesi [Ascolta qui]
«Vieni a vivere a casa mia, tanto non c’è niente. Ci sono solo io con la chitarra e suono sempre».

Come si può rifiutare un simile invito? I versi introducono il singolo che dà il nome all’album, Ipotesi. Si tratta di una dimensione fantasiosa, ipotetica per l’appunto, con la paura della verità e del futuro. «Io resterò un’ipotesi» è un frase, riflettendo, davvero disarmante. Quante volte capita di risultare soltanto un’alternativa, certo «qualcosa che può cambiare», ma anche un fiore da calpestare o un petalo da scartare, nell’irrealtà.

Cuore è ancora un pezzo malinconico, frutto di una delusione amorosa, sentimento che alimenta come morfina tutti gli artisti. «Senza una casa la mia vita è tremenda, è ancora peggio senza di te. Ti sei portato un pezzo di cuore e ce l’hai in tasca quando esci di sera, sta col tabacco e l’accendino rotto e si diverte se lo porti a ballare. E io sono triste perché sono molto lontana». Sdrammatizzando, Massimo Troisi all’amico Pino Daniele disse: “Tu quando soffri ci guadagni. Basta che soffri due giorni e fai una canzone di tre minuti, io per fare un film di tre ore devo aver sofferto sin da quando ero piccolino, già dall’ostetrica…”.

Introdotta da un dolce arpeggio di acustica, Madre racconta il rapporto genitori-figli, fatto spesso di contrasti. «Anche se contro voglia e se mi invidi, anche se non ammetti che tutto non è limpido». E poi “chissà, chissà, domani”.

Simona Severini non si è improvvisata.

Suona sin da piccola, coltivando un certo raro e bell’animo soul; nel 2011 pubblica per un disco stravolgente dal titolo La belle vie, dove unisce musica e letteratura, ispirandosi alle melodie di Fauré. Vanta esperienze teatrali e illustri collaborazioni, tra cui quella con il cantautore Ron e con il pianista Enrico Pieranunzi, con il quale inciderà un bellissimo disco dal titolo My Songbook (Via Veneto Jazz, 2016). Ha partecipato a numerose manifestazioni come “Umbria Jazz”, “London Jazz Festival”, “JazzMi”, “Paris Jazz Vocal”, vincendo nel 2017 il prestigioso festival Musicultura.

Una volta, il poeta Arthur Rimbaud – meravigliosamente tradotto da Dario Bellezza – scrisse: «I bracieri e le schiume. La musica, vortice dei gorghi e cozzo dei ghiaccioli contro gli astri. O Dolcezze, o mondo, o musica! E là, le forme, i sudori, capigliature e gli occhi, fluttuanti. Le lacrime bianche, bollenti, – o dolcezze! – e la voce femminile giunta in fondo ai vulcani e alle grotte artiche». La voce incantevole e romantica di Simona ci è arrivata, arriverà ancora e resterà per sempre, come il sigillo in ceralacca, color amaranto, su di una lettera.

Simona Severini è una bomba ad orologeria dentro una nuvola di zucchero filato.

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