Il “Maggio” di Antonio: la rivoluzione gentile dell’impegno messo in musica

“Anche se il nostro Maggio ha fatto a meno del vostro coraggio / se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento / se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento / anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”

Cantava così, nel 1973, Fabrizio De André. La canzone era quella del Maggio e il disco Storia di un impiegato: primo concept album italiano, che raccontava la vicenda di un giovane uomo, deciso ad emanciparsi dal suo ruolo borghese per partecipare ad una lotta giusta, ma violenta. E a trasformarsi da impiegato a bombarolo.

Cinquant’anni dopo, Antonio Maggio dimostra l’analogo coraggio evocato dalla canzone di Faber: quello di chi rivoluziona la propria musica per rispondere alle urgenze di un tempo in profonda crisi. Non getta bombe, ma note, radunandole in quello che lui stesso definisce un “no-concept” album, data l’eterogeneità delle canzoni che contiene. Pubblica un EP che porta il suo cognome, Maggio, ma che non porta più con sé il piglio dissacrante cui ci aveva abituati all’inizio, quando la vittoria sanremese di Mi servirebbe sapere (per la categoria Nuove Proposte) lo aveva traghettato ufficialmente verso la professione di cantautore. E intraprende un viaggio lunghissimo, lungo dieci anni, che lo porta dalle risate all’impegno e dal rivestirsi di ironia per il semplice gusto di farlo all’usare quella stessa ironia per mettersi a nudo e tornare all’essenza delle cose. Questo è il Maggio di Antonio, la sua rivoluzione gentile, e ne abbiamo parlato direttamente con lui.

Iniziamo con un riassunto di questi dieci anni: che cosa è cambiato da quel 2013?

Il 2013, con la vittoria di Sanremo Giovani, ha sancito a tutti gli effetti l’inizio della mia carriera. Probabilmente, senza quell’esperienza, non starei qui oggi a parlare di questo disco. O magari sì, ma non con lo stesso percorso di crescita alle spalle: perché Sanremo è per tutti una vetrina talmente luminosa che permette poi di trasformare una passione nella propria quotidianità e nel proprio mestiere. Da quel momento in avanti, ho cominciato a fare sul serio nella musica e, con il passare degli anni, insieme alla persona è cresciuto anche l’artista: per questo mi piace pensare che il disco arrivi proprio, anche nelle sue tempistiche, a coronare questo primo decennale di carriera. Certo, la prossima volta vedrò di non far passare tutto questo tempo nel mezzo! (ride)

Antonio Maggio, “Maggio” [Ascolta qui]
“Mi servirebbe sapere” era un brano che dava conto di una componente ironica allora ben presente nel tuo modo di fare musica. Ascoltando però il nuovo EP scopriamo un Antonio Maggio decisamente cambiato: più consapevole, forse.

Quella di Mi servirebbe sapere era una dimensione capace di dare un taglio dissacrante ed ironico ad un momento storico (ma anche musicale) in cui ci si prendeva davvero troppo sul serio. A distanza di dieci anni sento di non aver rinnegato affatto quell’ironia, ma piuttosto di aver rimodulato i punti di vista con i quali affronto le tematiche delle canzoni, decisamente più intime ed introspettive. Forse perché adesso, rispetto al 2013, la situazione sembra essersi capovolta. Credo ci sia una certa superficialità intorno a noi: la pandemia, i momenti difficili che abbiamo attraversato, non ci hanno aiutato a riscoprire i valori, ma per certi versi a perderli ancora di più. Penso che la musica abbia dunque un ruolo sociale importante, ci credo moltissimo. E sono diventato giocoforza più riflessivo e “serioso”, nonostante nella mia penna permanga sempre una componente vitale di leggerezza.

Sembra quasi che tu abbia voluto metterti a nudo, riscoprirti.

Sicuramente sì. Nel senso letterale del verbo scoprirsi: tirare via tutti gli strati che ci hanno messo addosso gli altri, le situazioni complicate o l’abitudine ad assuefarci. Si tratta in pratica di riscoprire il nostro autentico modo di stare al mondo, la nostra essenza. Penso sia una cosa fondamentale, contro il condizionamento di mille tendenze: perché le mode passano, ma l’essere umano poi resta. Come si fa allora a riconoscersi davvero, in modo sincero?

Di sincerità parla anche il vestito che hai voluto dare a questi sei brani, musicalmente adattissimi per un concerto unplugged.

È un disco suonato interamente live, dall’inizio alla fine. Il ripristino autentico di valori riguarda anche la musica, la sua acusticità. Se ci pensiamo bene, si è sempre dato per scontato che la musica si debba in qualche modo suonare. Oggi non è più così, ma quasi non ce ne accorgiamo. Non ho nulla contro le produzioni massive e i campionamenti, ma secondo me c’è bisogno di dare al pubblico una consapevolezza di che cos’è davvero la musica, di quale sia la sua essenza.

Antonio Maggio vincitore di Sanremo Giovani nel 2013, con il brano “Mi servirebbe sapere
Che cos’è, dunque?

Un forma d’arte, che ha l’originaria caratteristica di essere suonata. Il mio disco vuole essere un modo per ricordare al pubblico l’importanza di suonare, oggi. C’è un’innegabile urgenza di musica dal vivo, di musica (passami il termine) “normale”, in un mondo che spesso violenta l’arte per renderla in qualche maniera stupefacente ed eccezionale. Però non dobbiamo dimenticarci quello che già Lucio Dalla diceva.

“L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Proprio a Lucio Dalla hai voluto dedicare in questi anni un progetto dal vivo molto interessante.

Maggio canta Dalla in jazz, a cui tengo moltissimo. La premessa fondamentale sta nel fatto che ho sempre studiato musica da autodidatta: tutto quello che so lo devo agli ascolti fatti, relativi per la maggior parte al grande cantautorato italiano cui Dalla faceva parte. Inizialmente forse ho subito quest’influenza a livello inconscio. Però poi, raggiunta la consapevolezza di quanto il cantautorato fosse stato dirimente per me, ho iniziato a battermi affinché quest’importanza venga trasversalmente riconosciuta. I grandi cantautori italiani andrebbero considerati alla stregua dei grandi protagonisti della nostra letteratura.

De André in passato era stato inserito nelle antologie scolastiche.

Esatto, e forse allora c’era più lungimiranza. Anche il progetto Maggio canta Dalla in jazz ha una valenza didattica: mi rendo conto che le nuovissime generazioni arrivano ai diciott’anni chiedendosi ancora chi erano Rino Gaetano o Luigi Tenco. Penso sia una cosa gravissima, perché delinea un trend di dispersione culturale che nei prossimi anni crescerà ancora. Nel mio piccolo, quello che faccio con il repertorio di Dalla è qualcosa che mi auguro possano fare anche tantissimi altri cantautori contemporanei: prendersi l’onere e l’onore, cioè, di portare la canzone italiana all’attenzione di chi, per una ragione o per l’altra, non la conosce o non ha gli strumenti per approfondirla. La divulgazione, specie dei cantautori che non ci sono più, è fondamentale. Si tratta di tornare alle radici e spiegarle agli altri.

Le canzoni del tuo stesso disco sono permeate da un senso di ritorno: un desiderio di partire che è sempre anche un tornare. In “Stati d’animo e d’accordo” c’è l’urgenza di lasciare, mentre “Quanto sei bella Lecce” è molto radicata in un bisogno di restare.

La dicotomia c’è: il sogno di tornare, di andare ma non troppo, è a sua volta radicato nel desiderio di partire. Scoprire nuovi posti, nuovi sguardi e nuove esperienze fa sempre il paio con la necessità di casa, di quegli ambienti, non necessariamente fisici, in cui si è stati bene. L’importanza del tornare dove si è stati bene c’è anche in Una formalità, dove l’ispirazione quasi vendittiana di un amore che fa giri immensi per poi tornare si traduce nel ritrovarsi all’interno di una relazione che, facendo i conti con il tempo, sopravvive ai ricordi per tornare reale.

Parli di ricordi, e i ricordi sono fatti di tempo che passa. Ma, come dici anche tu, “il tempo è solo una formalità”.

Assolutamente sì. È una dimensione di fronte alla quale le nostre manie di controllo e protagonismo cadono irrimediabilmente. La dimostrazione di questo sta proprio nell’impossibilità di rincorrere qualcuno o qualcosa: un ricordo, un’emozione, una persona. A rincorrersi, a cercarsi spasmodicamente, provando quasi ad ingannare il tempo, si perde sempre. Occorre aspettarsi, ripristinare pazienza e lentezza. Nel mio disco del 2013, Nonostante tutto, c’era una canzone dal titolo Anche il tempo può aspettare, che pensandoci bene non si discosta tantissimo dal discorso che faccio ancora oggi.

In questo senso, anche il titolo dell’EP è sintomatico di un discorso mai terminato con te stesso: di un filo logico che torna al tuo cognome e dunque alla tua identità.

Proprio così. In questi dieci anni non ho pubblicato un lavoro organico, ma diversi singoli che comunque hanno contribuito a delineare il ritratto di chi sono e di che cos’è la mia musica. Questo disco è allora la cornice di un ritratto più consapevole, anche in vista del futuro: un “no-concept” album, con sei quadri estemporanei, accomunati… da me! Ho già in cantiere altri progetti e Maggio è la prima parte di un lavoro più ampio, che vedrà la luce nel prossimo anno.

Maggio
Già altri artisti (il duo Canarie, ad esempio) hanno fatto questa scelta: diluire la propria produzione su un tempo più dilatato e lento.

Penso sia qualcosa di salvifico e necessario. Viviamo nell’epoca dello streaming, governato da algoritmi sui quali non abbiamo il controllo, nemmeno con i nostri gusti personali. E questo perché le piattaforme ragionano in un modo completamente svincolato dalla libera scelta umana: dopo due o tre mesi, le canzoni vengono considerate vecchie ed inascoltabili, quando in verità non sarebbe così. Penso che qualsiasi artista la pensi come me: i brani che scriviamo meritano la giusta attenzione, non è una gara per velocisti. Allora, diluire il proprio lavoro significa arginare il rischio di disperdere il valore dei pezzi. Paradossalmente, la completezza di un progetto può essere percepita proprio a partire dalla sua dilatazione.

La filosofia slow food che cerca di trovare una quadra con il mondo in perenne rincorsa di Spotify.

La massima diffusione della musica è sempre bella, ma di contro c’è anche una bulimia di ascolti che diventano necessariamente superficiali e che sì, come dici bene, sembrano diventare un po’ il Big Mac della discografia. L’importanza di assaporare le cose, invece, è per me fondamentale. E questo lo vedo anche a tavola: sono sempre quello che finisce per ultimo di mangiare.

E alla fine della chiacchierata siamo giunti anche noi. Come ultima domanda, parafrasando la canzone che ti portò al successo, ti chiederei una curiosità.

Dimmi.

Che cosa “ti servirebbe sapere” oggi, Antonio?

Mi servirebbe sapere se il disco sta piacendo alle persone (ride). Ma i riscontri sembrano positivi e non vedo veramente l’ora di portarlo sui palchi quest’estate.

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