Crescere con gli Afterhours: una foto di pura gioia
Credo che sia stata una delle cose più difficili di queste settimane: riflettere su cosa significhi essere cresciuti con gli Afterhours nei primi anni ’10 del nuovo millennio. E farlo ora, in un periodo pieno di emozioni faticose, di istinti nolenti. Ho preso coraggio, però. E ho iniziato a scrivere.
Vi avverto. Non ho scritto un pezzo sugli Afterhours. Non troverete nulla sull’evoluzione musicale di Manuel Agnelli, che oggi sfoggia il suo pizzetto brizzolato in televisione. Nessuna critica musicale, nemmeno un accenno alla cronologia degli album. In questo articolo, che assomiglia più a una confessione che a una risposta, ho raccolto solo una quantità imbarazzante di citazioni e ricordi.
Lo dico meglio: è una foto di pura gioia.
Più di dieci anni con gli Afterhours
Sono passati più di dieci anni da quando ascoltavamo gli Afterhours sui nostri lettori mp3. L’epoca dei primi piercing, delle ciocche di capelli colorati, della colonna sonora di The Eternal Sunshine of the Spotless Mind. I primi amori, quelli immensi, quelli torbidi, quelli incoscienti.
C’è qualcosa dentro di me / Che è sbagliato / E non ha limiti / E c’è qualcosa dentro di te / Che è sbagliato / E ci rende simili
A pensarci ora sembra uno stato di grazia. I social network erano ancora timidi, spesso si usavano troppe k negli sms. E c’erano le promozioni telefoniche per l’estate. Eravamo connessi, ma avevamo ancora tanto spazio per poter sentire il suono stridente della nostra interiorità. Osservavamo curiosi quegli oggetti impacciati che erano le nostre emozioni smisurate, immature. Tutto sembrava grande, troppo grande, tutto faceva un po’ male.
L’educazione sentimentale
Gli anni in cui consumavo i dischi degli Afterhours erano per lo più gli anni del liceo. Il tempo delle mele era per noi il tempo del male di miele. Ascoltavamo brani come Strategie o Lasciami leccare l’adrenalina, era il nostro modo di relazionarci agli abissi che avevamo dentro. A quel torpore, quel desiderio indefinito che accompagna i sentimenti di tutti i cuori acerbi. Sentivamo spesso freddo, dentro. La vita sembrava poterci congelare.
Copriti bene se ti senti fredda /Hai la pressione bassa nell’anima / Com’è strano il sapore che riesco a sentire / Male di miele
Una volta, mentre ascoltavo Ci sono molti modi, vidi che una mia compagna di classe aveva sul suo banco L’Educazione sentimentale di Flaubert. Mi è capitato spesso di pensare che tutta l’educazione sentimentale che ho ricevuto si divideva tra Ballate per piccole iene e i romanzi di Milan Kundera.
Lo so, lo so che il mio amore è una patologia. / Vorrei che mi uccidesse ora.
Gli Afterhours hanno saputo cantare l’amore anche quando l’amore non c’era. Una fenomenologia negativa. Così ci hanno accompagnato tra le prime pulsioni, la vergogna, il vuoto. E la sperimentazione, il desiderio, la trasgressione. Tutto ciò che circondava l’amore, ma amore non era. Ed è stato un vero e proprio privilegio per me, adolescente di provincia, poter ascoltare al buio tra le coperte qualcosa come Il Sangue di Giuda. E sentire che esisteva un modo per raccontare al mondo il cuore tumefatto che portavamo dentro.
Due miserie in un corpo solo. / C’è solo sangue / Solo sangue.
Giocare con la vastità
Noi eravamo le piccole iene. Prede di quel gioco amaro fra istinto e paura. Tra desiderio di tenerezza e voglia di distruzione. Oscillavamo fragili tra scelte sbagliate, qualche amore platonico di troppo e un sottile senso di responsabilità. Davvero molto sottile, proprio come una linea bianca.
Aiutami a trovare qualcosa di pulito. / Uccidi ma non vuoi morire.
La testa è così piena / che non pensi più / ti si aprono le gambe oppure le hai aperte tu?
Tutto bruciava. Seguivamo i nostri desideri, a volte solo per vedere dove ci avrebbero portati. Eravamo così belli vestiti di lividi. In quegli anni, il dolore non era ancora un rumore sordo che accompagna placido lo scorrere degli impegni e delle incombenze. Era una tempesta. Avvolgeva tutto e ci permetteva al contempo di sentire più nitidamente ogni cosa. Spesso a caro prezzo. Non c’era niente a proteggerci dalla nostra giovinezza, vivevamo dolcemente impreparati su tutto. Eravamo vasti e adoravamo giocare con la nostra vastità.
Stringimi, madre, ho molto peccato / Ma la vita è un suicidio / l’amore un rogo / E voglio un pensiero superficiale / Che renda la pelle splendida
Ho questa foto, di pura gioia
E quindi cosa vuol dire alla fine essere cresciuti con gli Afterhours?
Significa aver adorato l’ignoto. Ciò che non avevamo ancora, ciò che non avevamo più. Tessere una tela che veniva disfatta ogni notte, cercare un fragile equilibrio tra il desiderio del caos e la premura dell’ordine. Tentare di non bruciare via. Esplodere, reprimere, soffrire, amare, anestetizzarsi. Avere fame.
Un canto per quando ci si è persi, per quando non ci si è ritrovati.
Un canto per riconoscersi, per andare via.
Per sparare dritto, davanti sé. A quello che non c’è.
Artwork by Chiara Zaccagnino
Bellissime parole, mi hai fatto tornare indietro di un decennio..
Mi dispiaccio ogni volta di non essere più grande, di essere nata nel 1998 quando gli Afterhours erano già lì da un po’ e di non aver visto in diretta tutto il loro percorso. Li ho scoperti nel periodo del liceo, sono la mia colonna sonora da anni, il mio conforto, e per quanto possibile mi ritrovo nelle parole scritte nell’articolo, perchè nonostante siano generazioni, anni e periodi diversi ci si riconosce sempre nelle parole e nella musica di chi ti racconta come stai.
Complimenti… Io l’ho vissuto negli anni 90 ma è la stessa identica emozione. Questo è l’unonovenovesei.