Della Rappresentante di lista ovvero di una certa idea di uomo e di umanità

Credo che la protesta possa assumere vari volti. Credo che un “Salvini merda” scritto dietro ad una chitarra non basti. O meglio, probabilmente ora come ora c’è bisogno anche di questo, ma non dovremmo fermarci qui. In nessun caso. Il dato da rilevare, a mio avviso rincuorante, è una recente (ri)presa a carico di un certo tipo di impegno politico da parte di una fetta significativa del panorama musicale italiano contemporaneo. Ed è da qui che vorrei partire.

Innegabile il fatto che si stia assistendo alle più disparate modalità di rivendicazione da parte di chi si trova a calcare un palco. Basti pensare alla platealità di Massimo Pericolo, che nel video di 7 miliardi brucia la propria tessera elettorale (“Non so neanche chi è il presidente/Non voto ché tanto non serve”). Ai messaggi più discreti contenuti nelle canzoni di Motta (Mio padre era un comunista, Sei bella davvero), criticato dal sindaco di La Spezia in occasione di un suo live. Alla dedica esplicita di Andrà tutto bene rivolta da Levante a Stefano Cucchi e ai migranti, o ancora, al brano-denuncia (Lavorare per il male) firmato Tre Allegri Ragazzi MortiPier Paolo Capovilla, uscito non a caso il primo maggio, diretto contro un sistema politico-economico malato, il nostro, che impone una concezione precisa dell’esistenza a cui non resta che conformarsi.

Ma cazzo, deve pur esserci posto anche per altro! La domanda che sorge a questo punto quindi è: come può configurarsi questo “altro”?

Qual è l’alternativa effettivamente praticabile anche da chi si trova al di sotto del palco? Una possibile risposta ci viene senz’altro suggerita dalla Rappresentante di lista. Veronica, Dario e gli altri membri della band riescono bene a trasmettere una certa idea di uomo e di umanità LIBERA, per quanto possibile, di esprimersi e di dirsi autonomamente. Certo, il fitto reticolo della governamentalità in cui si trova imbrigliato il soggetto non potrà mai venire meno, ma la sfida è proprio quella di cercare di ritagliarsi, all’interno di questo sistema interconnesso e onnipervasivo, il più ampio spazio possibile per attuare una (ri)appropriazione autentica.

Appropriazione è una parola che rimanda alla sfera più intima che ci è costitutivamente concessa: il PROPRIO appunto. Concetto tanto complesso quanto elementare… cos’è che veramente ci è proprio? Sappiamo bene che si tratta in realtà di un qualcosa che paradossalmente non ci apparterrà mai del tutto. Il movimento di appropriazione, infatti, comporta necessariamente anche quello di disappropriazione. Ci sono io ma c’è anche qualcosa che quando mi guardo allo specchio fa sì che non mi riesca a riconoscere del tutto. Un che di unheimlich, il perturbante di cui parla Freud, il non-famigliare in ciò che abitualmente consideriamo famigliare.

C’è sempre una restanza, un’eccedenza, un qualcosa di non riducibile alla mera concettualizzazione e questo “di più” è il corpo, il nostro corpo, in cui appunto ci riconosciamo, sì, lo sentiamo nostro ma allo stesso tempo sappiamo di non ridurci pienamente ad esso. Questo corpo, di cui ci parla anche la Rappresentante di lista, nel primo singolo di Go Go diva. Esplosione della potenza espressiva e riappropriante della materialità.

A Veronica e a Dario vorrei anche chiedere che cosa pensano della situazione paradossale cui ci troviamo a dover far fronte, soprattutto in campo di diritti civili.

Il corpo è mio e me lo gestisco io”, così recitava uno dei tanti slogan femministi della seconda metà del secolo scorso. Ma come mai, da un po’ di anni a questa parte, si stanno continuando a fare enormi passi indietro rispetto ad acquisizioni ritenute fino ad ora salde e quasi intoccabili? Come mai in alcuni stati degli USA (Alabama, Georgia, Louisiana ecc.) si ritorna ad adottare misure oltremodo retrograde in fatto per esempio di aborto, tanto da vietarlo anche in casi estremi come quelli di stupro o incesto? Fino a che punto potranno esser lesi diritti così intimi come quelli legati alla sfera corporea? La questione è forse fin troppo sottovalutata. Sì perché la vera rivoluzione deve partire da qui, dal proprio, da questo corpo.

rappresentante

In un’epoca di individualismo estremo, com’è quella che stiamo attraversando, non si può pensare di prescindere da questo. Fare cioè in modo che ognuno di noi possa, nel suo piccolo, pensare diversamente la propria vita, plasmarla, magari artisticamente, autodeterminarsi ma per davvero. I singoli percorsi si potranno, anzi si dovranno poi incrociare e proseguire assieme. È impossibile però ragionare in grande se prima l’individuo non ha preso consapevolezza della possibilità e del diritto di immaginarsi lui stesso un altro futuro, di credere autenticamente a qualcosa. E senza aver paura di usare parole come “utopia” e “libertà”, oggi purtroppo schiacciate dalla cogenza di certi metodi di comunicazione “calati dall’alto”, che ci rendono schiavi anche dal punto di vista mediatico, prigionieri del nostro stesso linguaggio.

Liberi, liberi, liberi. Sentirsi liberi anche nel non dover per forza sottomettersi alle classiche categorizzazioni, riconoscendoci tutti, anzi, come simili.

Artisti come la Rappresentante ci aiutano anche in questo. Con le loro performance è come se ci fornissero preziosi strumenti, ma siamo poi noi che dobbiamo portare avanti il lavoro per riuscire alla fine a farci attraversare “vitalmente” da un pensiero, interiorizzandolo, sfruttandone a pieno tutte le sfumature. Ed è proprio qui, nell’esperienza personale, e poi nel dialogo, nel racconto, nello spazio intersoggettivo, che c’è storia, che c’è differenza, che c’è appropriazione.

Non si tratta solo di recepire passivamente un messaggio. I veri artisti sono in grado, con le loro parole, con le loro canzoni e con le loro prese di posizione, di scuotere, di “creare movimento e azione” anche nello spettatore più distante da loro. In tutti i sensi.

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