Apice ha scritto la sound-track della vostra vita

Il lungomare, la nebbia, la marmellata, l’umidità, l’alba ed il tramonto sono tutti quei dettagli che ho ritrovato ascoltando Apice. Beltempo diviene subito la sound-track che fa da sottofondo alle nostre giornate. Gli ho rivolto alcune domande.

Tanto per cominciare ti farei tre domande a bruciapelo.
Chi fu Apice?

Quello che continua a essere ora, nel tentativo di non dovermi domani rinfacciare tradimenti che non saprei davvero tollerare.

Chi è Apice?

Al momento non lo so. Un narciso pelato? Pelato sicuramente. Ma direi anche narciso, anche se come direbbe qualcuno, un narciso-non-competitivo. Almeno, il più delle volte.

Chi sarà Apice?

Il presentatore di Sanremo 2036. Io ci credo.

Quando ho sentito il tuo nome d’arte ho pensato ad Apice un paesino tra l’Irpinia ed il Sannio, e subito ho paragonato la tua musica alle periferie delle nostre terre. Una periferia che a volte non è connessa con il mondo ma che è viva.

Questa è una chicca che hai tirato fuori tu per la prima volta! Bene, allora ti posso dire che mi sento in qualche modo di aver portato nuova visibilità alla tragicamente dimenticata realtà di Apice Vecchia perché, da bravo narciso-pelato-non-competitivo-ma-anche-sì, proprio non riuscivo ad accettare che nell’indicizzazione web (naturalmente auto-googlandomi) venissi dopo la mia città omonima, e quindi, per conoscere il mio nemico mi sono sparato tutto i video-documentari che ho trovato in circolazione e oggi posso dire di essere uno dei principali conoscitori del paesino di cui parli.

Tra l’altro, Apice non è solo un megalomane nome d’arte ma anche il mio cognome: sono originario di Napoli ma ho sempre vissuto in Liguria, e infliggendomi letture di teorie sul patronimico e sulla genealogia (perché non ci si vuole mai male abbastanza), ci sono numerose possibilità che le mie radici affondino la loro storia nella provincia dell’Irpinia. Tutto questo per dirti che la periferia mi scorre nel sangue, e mi sento piuttosto in linea con il mio tempo: la condizione della mia generazione ruota intorno a quella sensazione alienante di sentirsi sempre periferia di qualcosa, o di qualcuno. Non credo esista più un centro ben preciso, che eserciti una forza centripeta capace di dare sicurezza al movimento; esistono direzioni infinite, nella speranza che ognuno abbia la forza di scegliere, come sempre, quelle ostinate e contrarie alle strade facili e semplicistiche. Ci vuole molto coraggio, certo, e una grande vocazione al trionfo e al pianto.

Quindi in questo nuovo disco ho intravisto molti modi di essere e molte sfumature di Apice. Ho sentito l’odore di mare ed il traffico della città nei giorni di pioggia.

C’è tanto di tutto questo, sicuramente. Vivo a Bologna da cinque anni, ormai, e ho capito l’immensa fortuna che abbiamo noi, gente di mare, a vivere a ridosso dei venti carichi di sale solo quando mi sono trovato a naufragare nella nebbia padana. Calvino, che è uno dei miei maestri spirituali e letterari, dice che i liguri sono di due tipi: sono patelle, aggrappati allo scoglio senza mai mollare un centimetro alle maree e alla tempesta, o sono gabbiani, impegnati in giri immensi ma destinati a tornare sempre al nido. Io mi sento appartenere al secondo tipo, e il mare per me ha la forza catartica di un abbraccio materno, e sento di rispettarlo come un Padre, quindi sì, ne parlo tanto in Beltempo.

Di contro, o forse a completare, mi sento di essere, come tanti liguri, un misantropo estremamente socievole, che giuro non essere una contraddizione (o almeno, mi sono convinto che non la sia): la città diventa quel luogo di scontro e incontro, in cui ascolti tutti e tutto, finisci col sentire quasi nulla, e ti trovi a scegliere di tenerti stretto davvero pochi e poco. La città s’impone, ti violenta con la scelta: nel caos della città, se non vuoi diventare tu stesso città, l’umanità continua a stare nell’esercizio continuo e costante delle piccole cose, dei soliti gesti, che non smetti di voler preservare perché lì si nasconde la chiave della quotidianità, nell’era del rumore. Almeno, per me.

Il tuo album di esordio Beltempo è un augurio alla tua musica? Sai un po’ come il Mainstream di Calcutta e lo Scudetto di Galeffi.

Io credo sia un augurio a me, ecco. Ho scritto queste canzoni per me, perché ne avevo bisogno, e avevo tanta voglia di dirmi che sarebbe andato tutto bene; questo perché sono un diffidente per natura e no, non mi bastava che me lo dicesse la mia mamma. Quando i ragazzi di La Clinica Dischi hanno creduto potesse essere una speranza “condivisibile” e non solo un mio strumento di personale risparmio sulla psicoterapia, naturalmente mi hanno fatto salire al Settimo Cielo. Ma ad oggi, continuo a pensare che il beltempo sia una meta da avere ben in mente, tutti i giorni, e che questo disco possa essere un buon manuale di istruzioni (e di distruzioni) ma non la scorciatoia di un percorso che forse è giusto non abbia risposte e soluzioni precise. Sarebbe troppo facile.

So che dovrei lasciarti commentare il tuo Album liberamente, ma sarò un po’ egoista passando direttamente alla mia canzone preferita. Parliamo di “Ciao”.

Ciao è l’ultimo brano scritto per il disco (davvero qualche giorno prima della chiusura dei lavori), e forse quello che mi sono divertito più a scrivere. Volevo sperimentare un punto di vista diverso, dopo anni che mi sentivo rinfacciare la mia incapacità, da narciso pelato, di sapermi mettere nei panni degli altri. Credo che il tentativo d’immersione nell’altro da me si riuscito fino ad un certo punto, perché avevo bisogno di risposte che sentivo non essermi state date, e quindi alla fine dei conti il protagonista di tutto questo slancio propositivo continuo ad essere io, maledetto egocentrico; ma credo di aver capito tante cose su di me, sulle mie relazioni passate e su come vorrei fossero quelle future. Malauguratamente, ho già dimenticato tutto e sono certo, per dirla alla Canali, che sbaglierò, come ho sempre fatto. Ma rimango convinto che perdersi rimanga il modo migliore per ritrovarsi, sempre, ad ogni inciampo.

Hai un tour pieno di date e pieno di luoghi, cosa ti aspetti da questo giro per l’Italia?

Di mangiare un sacco di cose buone. E incontrare Le Rane a qualche concerto.

Salutiamoci dando un consiglio a chi ancora non ha ascoltato il tuo album, dove e come ascoltarlo?

Dappertutto, soprattutto dal vivo. Ho risposto in una sola frase ad entrambe le domande, spero abbiate apprezzato il mio indiscutibile dono della sintesi. Per il resto, c’è la freddezza dei social.

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