Bianco e le “Canzoni che durano solo un momento”

Non esistono domande banali. Siamo noi ad essere condizionati o a condizionare, con il nostro giudizio, la domanda che ci viene posta e che poniamo all’altro. La qualità della domanda influenza profondamente la pertinenza della risposta: dunque, in un certo senso, un quesito non è mai neutro. Lo pseudo-problema del cavallo bianco di Napoleone ne è un esempio.

Di che colore è il cavallo bianco di Napoleone?

La domanda è apparentemente insensata, in quanto presupponiamo che la risposta sia già contenuta nella domanda stessa. Immaginiamo però che la stessa domanda venga posta da un fantino esperto o da un veterinario incaricato di curare quel cavallo e dunque di stabilirne preventivamente e precisamente la razza. Scopriremo allora che non esiste il “bianco” per i cavalli, bensì tutto un sottogruppo di manti denominato “color crema” che a sua volta si suddivide in altri sottogruppi: Isabella, Palomino, Cremello e Albino. Vediamo allora crescere la complessità delle possibili risposte. Ma com’è appunto possibile che da una domanda tanto banale come quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone si possa arrivare ad una complessità tale?

E se fossero le domande stesse a portarci fuoristrada?

C.S. Lewis scriveva:

Quando pongo alcune domande a dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è una “nessuna risposta” di tipo speciale. Non è la porta sprangata. Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso e tutt’altro che indifferente. Ogni domanda senza senso non ha risposta. Quante ore ci sono in un metro? Giallo è quadrato o rotondo? È probabile che buona parte dei nostri interrogativi siano domande di questo genere.

Di bianco (o pseudo-tale) non c’è soltanto il cavallo di Napoleone, ma anche un cantautore torinese che di domande, dentro le sue canzoni, se ne pone parecchie, esaurendo la replica non in una risposta univoca bensì nel mondo cangiante, intimo ed insieme esplosivo della sua musica. Il suo primo disco, Nostalgina – uscito il 1° aprile 2011 – è stata anche la prima pubblicazione dell’etichetta indipendente INRI (Il Nuovo Rumore Italiano). Esattamente 10 anni più tardi, Bianco torna con un nuovo lavoro: Canzoni che durano solo un momento.

Nel mezzo, altri album e una pletora di collaborazioni importanti: Max Gazzè e Levante fra gli altri.

In questo suo ultimo progetto, si respira una profonda leggerezza: quella propria di ogni domanda senza risposta e di ogni risposta dalle mille sfaccettature possibili. Ma anche quella che può caratterizzare un bambino vestito da corsaro, mentre si muove alla ricerca del suo tesoro. La benda sull’occhio è però un fiore, che si apre ad un’infinità di mondi e di riflessioni possibili. Esattamente come il petalo a coprire l’occhio sinistro di Bianco, nella cover dell’album.

Bianco – Canzoni che durano solo un momento [Ascolta Qui]

Fare un disco è come una caccia al tesoro. Col tempo troverai gli indizi che ti porteranno al bottino – ha infatti dichiarato Bianco, – Le storie saranno sparse per la realtà e alcune dovrai cercarle nella fantasia. Poi i suoni sono i più difficili da trovare, e riconoscere quelli giusti richiederà sempre un percorso lungo, divertente e sicuramente totalizzante.

È proprio questa la profonda leggerezza di cui parlavo poc’anzi: il percorso divertente e al contempo totalizzante che porta Bianco a guardare con occhio curioso il tonno pescato, una biglia, una gomma masticata e un mozzicone corto come il fiato.

Durante il mio viaggio – continua Bianco – ho visto tanti posti diversi, alcuni pieni di gente, altri completamente abbandonati e dimenticati, ho annusato profumi nuovi, ho dato il benvenuto più importante della mia vita, ho detto addio, ho cambiato colore dei capelli un paio di volte, ho assistito a gesti ignobili verso degli innocenti, ho letto di colpevoli a piede libero, ho cambiato idea su tante cose, sono partito e sono ritornato, ho riscoperto la grandezza dell’uomo e la sua capacità di bellezza, ma soprattutto ho ritrovato amici con cui ho condiviso tante storie.

Quelle storie che ho voluto farmi raccontare direttamente da lui, in questa intervista.

Ciao Alberto! Partiamo da quel 1° aprile 2011 e dal compleanno di INRI. Che cosa ha significato per te questa etichetta nei lunghi anni che vi hai trascorso, abitandola letteralmente come una “casa”?

Sicuramente è stato un glorioso inizio per entrambi. Mi rendo conto che non è da tutti avere la fortuna di poter contare – fin dal momento zero – su delle persone che ti spronano e ti aiutano sinceramente, sia nel gestire l’ispirazione che nel portare avanti la distribuzione della propria musica, un ruolo fondamentale che da artista non posso trascurare. Devo dire che durante questi anni, nonostante il rapporto di partenza fosse già un’amicizia piuttosto solida, tutta la relazione con la famiglia INRI si è consolidata. Fatto sta che con loro parlo sempre meno di musica e sempre più di vita “vera” e quotidiana. C’è un bel rapporto di intimità, che si traduce in una tranquillità anche per quanto riguarda il confronto musicale. Un confronto che si svolge su un prezioso livello di comprensione, sintonia e a volte – addirittura – telepatia.

Mi rifaccio al nome dell’etichetta stessa per chiederti com’è cambiato, secondo te, il nuovo rumore italiano rispetto al 2011? Mi riferisco soprattutto alla scena indipendente.

Credo che, a livello di musica indipendente, abbiamo ormai passato quella difficile fase di grande omologazione. Qualche anno fa c’erano tantissimi progetti molto simili tra loro, che sembravano seguire i dettami di una certa “moda”. Certamente, nel 2011, la scena era ancora composta da un cantautorato ben variegato, però quando l’indie è diventato it-pop si è ridotto lo spettro di quella varietà iniziale. Ti dicevo che secondo me è una fase superata, perché sento come se i progetti che hanno mantenuto la loro autenticità fin dall’inizio ora possano finalmente respirare e vengano premiati. Anche la pandemia ha fatto la sua parte in questo, invitando in un certo qual modo gli ascoltatori a concentrarsi di più rispetto al solito e gli autori di canzoni ad avere forse più coraggio. La musica che necessitava di un ascolto più approfondito ha trovato terreno fertile in una rinnovata pazienza da parte di chi ascolta, grazie al tempo dilatato che abbiamo vissuto.

“Canzoni che durano solo un momento” è proprio uno di quei dischi che da questo ascolto approfondito trae giovamento. L’album prende il titolo da un verso di “Gazze ladre” che ci invita ad interpretare il mondo dal suo movimento e non dalle canzoni che appunto durano solo un momento. Che cosa significa per te questo verso e come si fa ad interpretare autenticamente il mondo in questo modo?

Istanti e lentezza coesistono nel nostro mondo e questo è movimento. Si tratta di interpretare il mondo e l’esistenza partendo da ciò che rimane. Mi sembrava un bel modo – anche attuale – per esprimere questo concetto. Le canzoni, per quanto siamo portati adesso a fruirne, durano poco. Il tempo di vederle uscire e due giorni dopo sono già vecchie, oppure ce ne dimentichiamo in favore dei mille altri brani che escono quotidianamente. È davvero difficile affezionarsi alle canzoni come si fa con gli oggetti o con le persone. L’essenziale è questo movimento, al di là delle canzoni stesse: sembra una dichiarazione audace, ma la musica parte dalla vita e non viceversa.

Foto di Giorgia Mannavola
Il disco contiene tre featuring: come sono nati questi tre brani e le relative collaborazioni?

Allora, tutte e tre le canzoni, in fase di gestazione, mi hanno fatto sentire l’esigenza di essere condivise con qualcuno. Erano testi che diventavano più potenti se c’era anche qualcun altro a rafforzare il concetto che volevo esprimere. Con Dente mi sono proprio sentito la sua voce mentre, in fase embrionale, canticchiavo la canzone. Raccontare in maniera leggera cose profondissime: solo lui ne sarebbe stato capace. Alla fine quella con lui si è rivelata un’esperienza molto bella: per registrare questo pezzo siamo andati insieme a Pordenone, da Paolo Baldini, in una sorta di pazzo viaggio reggae. Con i Selton, la base che avevo pensato per Saremo Giovani aveva già dentro i Caraibi, se capisci cosa intendo: una capacità analoga di affrontare temi importanti con leggerezza. Naturale allora pensare a loro. Per Mattanza con Colapesce, mi piaceva molto il fatto che un altro uomo della mia età potesse descrivere il disagio di noi “millennials”. E proprio l’immagine della pesca al tonno mi riportava al tempo passato con Lorenzo in Sicilia, dunque il concetto ne è uscito rafforzato.

Volevo proprio parlare di “Mattanza”, un pezzo dentro cui c’è questa strana metafora del sentirsi intrappolati e arpionati, proprio come tonni durante la mattanza. C’è l’ombra del non sentirsi capaci o all’altezza, dell’essere “maestri del tormento”, ma la cosa che più mi ha sorpresa è la curiosa citazione di “Hey Jude”. Da beatlemaniac quale sono, non ho potuto non associare quel “che ridere che mi fa” – detto in riferimento ad una situazione tragica – al “take a sad song and make it better” cantato da McCartney. Come se la chiave di lettura di una canzone così disperata potesse in qualche modo essere l’ironia stessa della situazione narrata. Sei d’accordo?

È assolutamente così. La dose giusta di ironia, a mio avviso, ci permette di guardare le cose da tutt’altra prospettiva. Il che non significa, attenzione, metterle da parte o non considerarle nella loro gravità o profondità. È semplicemente un fare grandangolo della situazione e dei pensieri che ne abbiamo, riuscendo a correggerne le dimensioni apparentemente catastrofiche. Noi siamo nipoti di gente che ha fatto la guerra per davvero: tornare all’essenziale significa non scordare mai le cose davvero tragiche dell’esistenza. La retorica della serietà non mi appartiene, proprio non la sopporto. Poi, mentre stavamo mixando il pezzo, io e Tiziano Lamberti abbiamo sentito le parole “Hey Jude”, una citazione che è tutta farina del sacco di Lorenzo (Colapesce). Beh, anche Tiziano è innamorato perso dei Beatles e, non appena l’ha sentita, ha messo sotto il piano con quel brano, proprio per evidenziare la cosa.

In generale, e anche in riferimento al feat con Colapesce di cui abbiamo appena parlato, mi ha molto colpito il tuo modo di guardare profondamente – e al contempo con una leggerezza ben diversa dalla superficialità – le piccole cose della vita, traendone canzoni. Questa cosa la noto in “Biglie”, in “Mattanza”, ma anche e soprattutto in “Gomma”, dove una gomma masticata e avvolta in uno scontrino è l’espediente per narrare tutta una relazione finita. Sempre parlando di amore arriviamo a “Proiettile”, una canzone che appena ho letto il titolo mi ha rimandato per associazione di immagini a “Spaccacuore” di Samuele Bersani. “Non chiamarmi amore che poi dimentico il mio nome” è un verso decisivo, in merito al quale volevo chiederti: c’è davvero questo rischio secondo te all’interno di un rapporto di coppia?

Il punto è proprio questo: il rischio di alienarsi nella relazione con l’altro. Io ho un rapporto bellissimo con mia moglie: 10 anni di matrimonio, festeggiati proprio quest’anno insieme al mio primo disco e alla nascita di INRI. Dopo tanti anni di esperienze fatte insieme e tante altre individualmente, ritrovarsi in qualche maniera a distruggere forzatamente le proprie abitudini e dover stare tante ore e giorni in casa ti fa riflettere. In effetti, l’alienazione è pericolosa perché poi porta all’abitudine. E il fatto di abituarsi alla coppia rende l’amore meno libero e anche meno sincero. Il messaggio di questo brano in particolare è proprio l’importanza di ricordarci chi siamo io e te, separatamente e come individui, perché solo così quel noi potrà bastarci sempre.

Come in “Biglie” – forse il pezzo che preferisco – in cui non c’è più l’alienazione di dimenticarsi il proprio nome ma appunto il privilegio di sentirsi finalmente se stessi e “normali” all’interno di qualcosa di profondamente “speciale”.

Esatto. E a differenza di Come se, dove a chiamarsi per nome è quell’io rimasto solo al mondo.

E che a me è sembrato un po’ il protagonista di “Castaway”, con il suo “amico pallone”. Sui testi insomma ci siamo, parliamo invece della musica. Com’è cambiato il tuo modo di produrla rispetto allo scorso lavoro?

Come premessa occorre dire che sicuramente il suono di Quattro era più un suono da band. Canzoni che durano solo un momento l’ho invece iniziato da solo e soltanto ad un certo punto ho chiesto ai musicisti di entrare nel progetto. Rispetto a com’ero abituato in precedenza, in moltissime di queste canzoni ho scritto prima la musica. Si è dunque trattato di trovare le parole partendo dalla base e proprio per questo, secondo me, in alcuni casi i testi sono più pregnanti e comunicativi, totalmente in sincronia con la musica. Già mentre tiravo giù gli accordi sapevo di cosa avrei parlato, ma tutto è venuto fuori dopo, perlomeno a livello formale. Ho anche imparato un utilizzo diverso dei sintetizzatori, grazie a Tiziano Lamberti, che mi ha aiutato ad inserirli nella maniera corretta, senza raffreddare i testi ma mantenendo un giusto equilibrio fra parte organica e parte sintetizzata.

Ultima domanda, riprendendo sempre il testo di “Biglie”: in questo “rosso di sera”, che bel tempo spera Bianco per la sua musica?

Il mio ideale artistico è da sempre quello di essere una sorta di colonna sonora. Mi auguro sempre che il mio pubblico possa associare la mia musica ad un momento particolare o ad un particolare evento della sua vita. È una cosa che mi piace, perché mi dà moltissima soddisfazione. Mi è capitato, ad esempio, per l’anniversario di Mela, qualche giorno fa: tante persone mi hanno scritto i loro ricordi, legati proprio a quel brano. Questa è la speranza onnipresente: il numerino di Spotify non m’interessa poi molto. La condivisione, quella sì che è tutta un’altra storia! E dà infine veramente un senso alle canzoni che faccio.

“Niente di complicato, niente di banale”, semplicemente canzoni. Che durano solo un momento.

Qui sotto vi lasciamo una vecchia intervista

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *