Davide Kharfi ci porta a ballare nel suo “Aquarium”

Gli ultimi anni hanno in qualche modo rimescolato, nel panorama della musica italiana, le carte in tavola. Quella “cosa” chiamata indie, che poi, grazie al cielo, è diventata it-pop; o l’hip hop che tramutandosi in trap è diventato più mainstream di Bassetti o l’incredibile fragore generato dai Måneskin che hanno fatto ricordare a tutti che Vasco e Ligabue non fanno rock.

In questo rimescolamento tra mainstream e underground, tra pop e nicchia, la dancemusic è sempre lì: in quella parte della casa in cui ci sentiamo comodi, ma che non mostriamo mai a chi viene a trovarci.

C’è un retaggio culturale chiamato dalla comunità scientifica “effetto Sandy Marton” che ci fa vedere la musica dance sempre come qualcosa di “facile”, disimpegnato, fine a se stessa nonostante ormai sia evidente che non sia così.

Per questo motivo, forse, anche negli spazi convenzionali in cui si fa/parla/scrive di musica, la dance finisce in un angolo (in buona compagnia, ma pur sempre angolo è); oggi invece proviamo ad invitare la dance al centro della stanza, nel dancefloor ranesco intervistando Davide Kharfi che ha da poco pubblicato il suo album Aquarium e con cui mi è piaciuto chiacchierare di lui, naturalmente, ma anche, appunto, in modo più generale di EDM.

La scena EDM ci ha abituati a una serie infinita di singoli e raramente ad album e progetti più complessi. C’è stato un momento durante la creazione di “Aquarium” in cui ti sei chiesto se questa scelta fosse giusta o non hai mai avuto ripensamenti? Lo rifaresti/rifarai?

Tutti i giorni! Ho dei ripensamenti tutti i giorni, ma lo rifarei. Chiaramente alternerei periodi di singoli a periodi di progetti veri e propri. La figata di fare un album è che puoi creare delle canzoni che non faresti mai uscire come singoli, come ad esempio “Tangeri”, “The Bubble” o “Aquarium”. Un singolo elettronico dev’essere adatto alla radio e oggi anche alle playlist.

Kharfi – Aquarium [Ascolta qui]
I numeri su Spotify fanno pensare che non faresti fatica a trovare un’etichetta se lo volessi. Come mai questa scelta di restare indipendente? Cosa potrebbe farti cambiare idea?

A livello locale, l’interesse per il mio genere musicale non è ancora abbastanza alto, quindi l’idea è quella di raggiungere più traguardi possibili da indipendente. Affidandosi alla distribuzione, c’è comunque la possibilità di fare submission ai canali più importanti come le playlist su Spotify. L’obiettivo è più quello di costruirsi attorno un gruppo di persone che lavorano alla tua musica, piuttosto che affidarsi a delle etichette che non conoscono la tua storia e lavorano alla tua musica in un modo che non rispecchia le forze che investi. Cosa potrebbe farmi cambiare idea? Chiaramente i budget importanti aiutano a sviluppare la carriera di un artista, quindi l’obiettivo a lungo termine è sicuramente arrivare a quello, perché ciò che voglio naturalmente è vivere di musica.

Sappiamo quanto sia difficile in Italia emergere nel tuo genere, perciò è facile immaginare che l’ispirazione provenga prevalentemente dall’estero. Quali sono state le reference principali dell’album?

SG Lewis, ZHU e anche i Meduza, ma in generale mi sono ispirato al me stesso di qualche anno fa, quindi a una musica più tropical chill mescolata con musica più da club, più movimentata.

In “Tangeri” rendi omaggio alle tue origini. Quanto ti senti legato al Marocco e quanto pensi che abbia influenzato la tua musica?

Mi sento legato al Marocco a livello di origini, ma sono nato e cresciuto in Italia, non parlo benissimo arabo. È più un legame di sangue e affettivo. Il tentativo di portare la mia musica in una dimensione più orientale è anche un tentativo personale di riavvicinarmi alle mie origini, una sorta di riscoperta. È stato mio padre a spronarmi a inserire elementi arabici all’interno dell’album, come già prima di “Aquarium” con “Marrakech Express”.

Kharfi
Pensi che saresti riuscito a emergere anche se avessi vissuto lontano da Milano?

Sarebbe stato praticamente impossibile avere delle platform per suonare alle feste pomeridiane, che adesso non esistono più ma che fino a 10 anni fa erano presenti solo in poche città italiane. Vivere accanto a Milano mi ha dato tante possibilità che altrimenti non avrei avuto.

In passato i dj ci avevano abituati a remix e mashup, ora cercano più il motivetto adatto a contenuti social ad esempio per Tik Tok. In che modo i social hanno cambiato il tuo modo di fare musica?

Odio i social in questo momento, quindi bellissima domanda, ti ringrazio. Io sono sempre stato sui social network: ai tempi di Facebook scrivevo tantissimo, poi ho cominciato a muovermi su Instagram. L’unico social che mi ha trovato un po’ impreparato è TikTok. Adesso mi sto muovendo anche lì, ma reputo tanti di questi contenuti fini a sé stessi. Qualche video può diventare virale, ma non può portare nulla in più alla tua carriera senza una progettualità e un qualcosa di unico che ti possa distinguere, ad esempio, da chi fa mashup. È già pieno di gente fortissima che li fa, quindi imitarli sarebbe inutile. Sto cercando di trovare una quadra, per ora propongo la mia musica.

I Meduza sono stati i superospiti della prima puntata di Sanremo. Raramente la musica EDM viene trasmessa in un programma televisivo così importante. Pensi che l’elettronica possa rivivere un momento di gloria nel nostro Paese?

Io lo spero vivamente. Sicuramente nel prossimo futuro ascolteremo più musica dance nei club e questa è già una grande cosa, però sarò molto sincero: è difficile che l’Italia viva un’altra età dell’oro della dancefloor. Lo spero, però! Chiaramente c’è bisogno di coesione da parte dei protagonisti: dobbiamo farci forza insieme. Siamo pochissimi, dobbiamo supportarci a vicenda, spingere l’uno la musica dell’altro, ma purtroppo spesso non è così.

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