“Humanize” di Appino: un audio-documentario sulle (ir)risolvibili contraddizioni umane

Tutti vorremmo partecipare alle nostre esequie. Vedere quali dei nostri amici ci saranno, chi fra i nostri ex fidanzati ha avuto il coraggio di associare ancora il suo volto al nostro nome e soprattutto se la nostra scomparsa sta a significare davvero qualcosa per il consorzio umano, globalmente inteso. È con questo pensiero nella mente – sortomi dopo aver riascoltato per l’ennesima volta Metti questa al mio funerale – che mi accingo a comporre il numero di Andrea Appino e ad intervistarlo in occasione dell’uscita di Humanize, suo terzo lavoro solista.

Un disco traboccante di umanità, a partire dal titolo. Un’umanità che vorrebbe partecipare al proprio funerale ma che, parimenti, non lo ammetterebbe mai. Un’umanità intrinsecamente contraddittoria ma le cui contraddizioni, se guardiamo e ascoltiamo bene, sanno già come risolversi. Esiste dunque possibilità di sintesi fra vita e morte, bisogno di relazioni e solitudine, oltre che ovviamente fra Andrea Appino e gli Zen Circus. Ce lo siamo fatti raccontare dal diretto interessato.

Humanize Ascolta
Appino, Humanize (Ascolta qui)
Sono passati dieci anni dal tuo esordio solista (Il Testamento nel 2013, premio Tenco come miglior opera prima). Che cosa è cambiato da allora e che cosa invece è rimasto uguale?

L’urgenza di fare qualcosa che fosse “a parte” rispetto agli Zen è rimasta la stessa. Il Testamento era in tutto e per tutto un concept album, incentrato sull’idea di famiglia. Si trattava di un disco molto violento, se vogliamo, dove analizzavo anzitutto il concetto decisamente cangiante di famiglia e dei legami che la caratterizzano. Avevo la necessità di farlo all’infuori degli Zen perché in quel momento sentivo che era una cosa mia, che avrebbe potuto inquinare ciò che il gruppo era in quel periodo. Humanize è allo stesso modo un concept album, un progetto lungo e personale.

Forse però, a differenza de Il Testamento, oggi non avrei troppo pudore a proporre un lavoro simile con gli Zen. Questo perché, nel 2013, avevamo un’idea più “stretta” di quello che era il nostro canone estetico, mentre oggi percepisco il nostro repertorio e la nostra identità come decisamente più eterogenei.

Siete cambiati e rimasti gli stessi al contempo, caratteristica di tutte le famiglie. Forse anche Humanize parla allora di famiglia, intesa nell’accezione più ampia possibile.

Se ci pensiamo sì. gli esseri umani sono di fatto un’unica famiglia. E nel disco ho cercato di dar loro voce, letteralmente.

Il lavoro si struttura infatti partendo da una raccolta di voci, frammenti d’interviste in presa diretta amalgamate con le canzoni per dar vita alle 23 tracce del disco. Com’è iniziato questo mastodontico progetto?

Il motivo per cui esiste il disco sono proprio le interviste. Otto anni fa, dopo essermi ripromesso la bugia di non avventurarmi mai più con un progetto solista, decisi parallelamente di mettere insieme una sorta di audio-documentario, intervistando le persone sulla scorta di quanto già Pasolini aveva fatto nei suoi Comizi d’amore. Il tema era quello che più mi affascinava in quel periodo e che più ha continuato ad affascinarmi nel corso degli anni: l’essere umano, in Italia, oggi.

Così, microfono e complicità di Davide Barbafiera alla mano, abbiamo raggiunto i luoghi più disparati per intervistare uomini, donne, bambini, anziani, ragazzi e adulti, nei contesti più diversi. Per la strada, nelle università, nelle RSA, persino in alcune cliniche per la cura del disagio mentale. Poi però mi sono reso conto che questo progetto non riusciva proprio a non essere anche un disco. Dopotutto, rimango pur sempre un canzonettaro.

E proprio in una delle “canzonette” contenute nell’album, Genio della lampada, emerge secondo me una possibile chiave di lettura per l’intero disco. Quando metti sullo stesso piano la paura della morte e il dolore della vita, che tutti vogliamo “sudare via” in qualche modo.

Il rapporto fra la vita e la morte è stato parte integrante e quasi fondamentale della mia ricerca. Ma anche di tutto il repertorio degli Zen, a partire da quel “vivi si muore” urlato a squarciagola nel momento forse più topico dei nostri concerti.

Humanize
Andrea Appino (ph. Giacomo Francesconi)
E a cui nei live aggiungete sempre “anche morti si vive, non fatelo mai”.

Esattamente. Già da qui si percepisce come morte e vita siano due cose essenzialmente comunicanti, sempre. E in Humanize due libri mi sono serviti moltissimo, per studiare questi meccanismi: Lo sciame umano di Mark Moffett, che analizza le origini delle nostre caotiche quanto fragili società, e Il gene egoista di Richard Dawkins.

Quest’ultimo, nello specifico, analizzando l’evoluzione umana dal punto di vista genetico, e dunque scientifico, fa notare come l’essere umano e la sua identità siano soltanto un veicolo per l’evoluzione dei geni, unica cosa che davvero ci accomuna, restando anche infinita e legata allo sviluppo dell’universo. La morte, in quest’ottica, si configura soltanto come la fine di una tappa del viaggio, quello dei geni sulla nostra persona, che però è capace poi di proseguire su chi verrà dopo di noi, perpetrando in questo modo la vita. Eppure, anche se vita e morte si parlano in maniera così evidente, il fine vita resta il grande tabù della nostra società.

E questo nonostante siano state sdoganati, nei secoli, tantissimi altri temi fastidiosi.

Sai, anche nelle interviste che abbiamo campionato per il disco la morte, come caratteristica dell’essere umano, faticava ad emergere, almeno se non eravamo noi a fare una domanda specifica in merito. Forse in luoghi come le RSA era più facile arrivare a parlarne, ma non scontato, mai. Si tratta sicuramente di un grande rimosso nella nostra storia, più per necessità che per volontà: tant’è che, anche in luoghi come le RSA, c’erano persone nella fase terminale della propria vita in grado di continuare comunque a fare progetti.

Su questa falsariga s’inserisce anche un altro sentimento ben presente in Humanize: la nostalgia per le cose future, per ciò che ancora non è accaduto e che forse non potrà nemmeno accadere. Una sorta di struggimento malinconico per non riuscire a continuare ad oltranza.

Sì, è lo stesso tipo di sensazione che anima la saudade nella cultura brasiliana e portoghese. Nel 2019, dopo la giostra di Sanremo, feci un viaggio in Portogallo, a Lisbona. Lo stesso viaggio che ispirò poi alcune tracce de L’ultima casa accogliente, l’album che pubblicammo con gli Zen l’anno successivo. Insomma, non ero mai stato in quei posti e durante quella breve settimana sentii come se la musica malinconica che ogni angolo di quei luoghi emanava mi fosse entrata nelle ossa.

Una sensazione del tutto peculiare, che fino a quel momento avevo provato soltanto leggendo le poesie di Pessoa, peraltro uno dei miei autori preferiti. E si tratta di una sensazione che deriva proprio dal paradossale rimpianto per ciò che ancora non si è vissuto, quel futuro che ancora una volta ci richiama spingendoci a eludere la nostra finitezza.

Quel futuro che, in Humanize, è incarnato anche da molte voci di bambini, speranzose e forti.

Il disco stesso si chiude su una voce infantile. Ora, l’ultima traccia, termina con un bambino che alla domanda “come vedi l’umanità fra un po’ di tempo?” risponde meravigliosamente: “Vedo case volanti, mi vedo io grande, è magia”. Una frase che rappresenta la vittoria della vita sulla morte ma anche della morte sulla vita: siamo magia, il perpetrarsi dell’umanità lo è, a dispetto di qualsiasi fine orribile ci attenda. E il desiderio di fare sogni è qualcosa di innato che mi piace pensare si tramandi insieme ai nostri geni, di generazione in generazione, rendendoci umani e permettendo anche a chi ha di fronte pochissimi anni di vita di coltivare progetti futuribili.

Humanize
Andrea Appino (ph. Giacomo Francesconi)
E proprio sul concetto di tramandare entra forse in gioco l’importanza delle relazioni e, allo stesso tempo, della solitudine. Anche questi due temi, come la vita e la morte, quando si parla di esseri umani sembrano dialogare sempre.

Assolutamente. Parlando anche solo in termini d’industria musicale, da una parte ho fatto questo mestiere per più di vent’anni insieme ad una band, e dunque in costante relazione, ma dall’altra il processo creativo è una cosa decisamente personale. E tuttavia, quando decidi di fare questo mestiere, non puoi prescindere dalla relazione con il tuo pubblico e dal bisogno innato che abbiamo, come esseri umani, di venire riconosciuti dall’altro.

Abbiamo bisogno di qualcuno non appena veniamo al mondo ed immaginarci davvero solitari è difficilissimo anche soltanto per questo motivo. Nasciamo con la necessità di farci notare, di chiedere aiuto e di avere bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Nella mia scrittura questo c’è per forza. Riesco a percepire il bambino Andrea che smania dalla voglia di farsi dire “bravo”, una componente fortissima di chiunque si esprima, con la musica ma non solo. Per esempio, quando ogni venerdì escono i dischi, riesco ad immaginare ciascuno di noi artisti che, con una tenerezza infinita, sembriamo alzare la mano per segnalare la nostra presenza, fra le 300 uscite settimanali, proprio come farebbe un bambino.

Eppure questo desiderio di riconoscimento riesce a fare il paio con una sorta d’intimità con se stessi che sta alla base, immagino, anche della tua scrittura.

Se vivessi la vita come scrivo la musica, starei probabilmente sulla cima di un monte a meditare. Invece faccio questo mestiere nel modo in cui lo faccio grazie a quel ragazzino che mi porto dentro e al suo atavico bisogno di attenzioni. Ma poi anche perché la musica si è rivelata essere, negli anni, il modo più efficace che ho per comunicare e comunicarmi.

Resta il fatto che riesco ad esprimermi attraverso la musica tanto quanto risulto insopportabile nella vita quotidiana: questo mi rimette a posto con il mondo, permette alle canzoni di essere autentiche, piene di riflessioni quasi elevate ma anche di rabbia e di ciò che sono ogni giorno.

Una componente, la rabbia, che sembra essere presente più nei tuoi lavori con gli Zen che nel progetto solista.

Vero. Credo sia perché quando lavoro da solo tendo ad avere un approccio meno biografico e più “deandreiano”, con le dovute virgolette. Un approccio che si avvale di tanto studio ma specialmente della voglia di mettere la propria musica a servizio delle storie – altrui – che intendo raccontare. Ed è questo che ho fatto in Humanize. Mentre sì, con gli Zen l’approccio è senz’altro più diretto e personale.

Due modi di fare musica che, ancora una volta, sembrerebbero scontrarsi e invece dialogano perfettamente.

Alla fine ho sempre bisogno di tornare agli Zen. Così come, dopo un periodo trascorso solo con gli Zen, ho bisogno di tornare al progetto solista. Inizialmente i fan credevano che ci sciogliessimo ogni volta, ora sanno che si tratta di fasi, anche molto fertili, in cui ciascuno di noi si dedica alla propria musica.

E la cosa bella avviene proprio qui: quando i diversi progetti solisti arrivano ad influenzare quelli del gruppo e viceversa.

Accade spesso, quasi sempre. Il Testamento e Viva si parlano, utilizzando lo stesso linguaggio rock per affrontare temi comunque diversissimi. E così anche Grande raccordo animale e La terza guerra mondiale. Insomma, mi par di capire – senza volermi psicanalizzare troppo – che ogni volta, dopo essere uscito con un disco solista, ritorna in me l’urgenza di narrare tematiche sociali attraverso un medium più personale e diretto, cioè la musica degli Zen.

A proposito di medium diretto, Humanize vivrà anche live a partire dal prossimo febbraio. Musicalmente il disco è però articolatissimo, che impresa sarà eseguirne i brani dal vivo?

Un’impresa titanica, con una band fotonica. Ma non sono un grande fan di quei tour dove si porta un disco per intero, privilegiandone le tracce nella prima parte del concerto e lasciando eventualmente le canzoni vecchie per ultime. Con questo tour voglio divertirmi a mescolare in maniera eterogenea le canzoni di Humanize con quelle dei miei altri due album da solista, in una sorta di compendio organico, quasi un viaggio pinkfloydiano. Luci di scena comprese.

E noi non vediamo l’ora.
Humanize Tour

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