L’Officina della Camomilla, ovvero i Moldy Peaches italiani

Io sono del ‘97 e sono entrato “tardi” in contatto con l’Officina della Camomilla. Ricordo che negli anni del mio liceo, nelle zone frequentate da ragazzi assidui ascoltatori di musica, c’erano un po’ delle fazioni. Tralasciando mainstream e underground, già solo all’interno dell’underground si venivano a creare dei sottogruppi anche magari ideologicamente in contrapposizione. Emblematico fu questo schianto: parlando con alcune ragazze, queste non avevano minimamente idea su chi fossero i Verdena e io minimamente su chi fossero l’Officina della Camomilla.

Superato però lo scoglio ideologico, mi si aprì tutto il loro mondo (musicale e non). Sono stati la “culla” dei miei primi anni universitari e, negli anni a seguire, l’affetto nei loro confronti è rimasto immutato nel tempo.

Appena scoperti, ricordo di aver cercato di tutto su di loro: recensioni, interviste, i video in discarica. Con internet archive recuperai il loro primo album con la copertina disegnata da Pierpane e l’intervento di Giuseppe Palmisano (aka Iosonopipo o iononsonopipo) ne “La canzone di Piera”. Insomma, letteralmente li consumai.

Per me non si trattava di sola musica, grazie ai loro testi ho potuto arricchire la mia cultura; banalmente se conosco Bruno Munari o Fausto Rossi, e in particolare “‘j’ accuse… Amore mio“, è tutto merito loro e delle loro canzoni.

A distanza di anni, dunque, dopo aver ascoltato anche più che volentieri i progetti solista di Francesco De Leo (fondatore, autore, cantante e compositore dell’Officina), sulla scorta di questi bei ricordi non nascondo di aver avuto non pochi timori rispetto al loro ritorno sulle scene (a distanza di poco più di 8 anni di assenza). Sarei riuscito a rituffarmi in quel mondo? Avrei avuto problemi? E se sì, di che tipo?

E invece eccomi qua a intervistarli, in attesa di vederli live durante il tour che partirà il prossimo 1° marzo, per quella che potremmo definire l’ennesima chicca del loro repertorio: “Dreamcore“.

dreamcore
L’Officina della Camomilla – Dreamcore [Ascolta qui]
A entrambi: Come è stata la genesi di quest’album? Avete più volte detto che spesso vi siete incrociati negli anni durante i concerti e ne parlavate, Francesco aveva già dei demo o delle bozze o si è sviluppato tutto quando avete deciso di rimettere in piedi la band?

Sì, diciamo che la scintilla che ha riacceso in toto il progetto Officina è stato il ritorno sul palco del MiAmi la scorsa primavera del 2023, grazie a Carlo Pastore che ci ha invitato, e a cui vogliamo molto bene. Dopo questo evento ci è venuta voglia di riformare la band degli esordi con Stefano, tornare a suonare live, andare in giro in tour e scrivere un nuovo disco.

Un altro motivo scatenante poi sicuramente è stata l’esplosione di un nostro vecchio brano diventato virale su TikTok, “Un fiore per coltello”. Ci siamo resi conto con nostro stupore, che in tutti questi anni di inattività si è andato a generare in modo del tutto spontaneo, tramite passaparola virtuale social e non, un nuovo pubblico di fan, soprattutto tra le nuove generazioni, che probabilmente non ha mai visto un concerto live dell’Officina della Camomilla. Abbiamo sentito l’esigenza di ritornare a suonare le nostre vecchie canzoni soprattutto per tutti, sia per i nostri fan storici e sia per quelli nuovi.

Per tutte quelle persone che ci stavano in qualche modo chiamando a tornare sui palcoscenici.

Fin da subito avevate chiara l’idea del sound?

Sì, diciamo che il sound dell’Officina è sempre stato caratterizzato da un mix di più generi diversi, si va dalla Toy Music al Lo-Fi anglosassone, passando per la Psichedelia e il post-punk, dal Twee Pop al cantautorato ecc.

Ci identifichiamo nell’universo musicale della Dreamwave, o comunque in tutti quei generi dove c’è la parola Dream. Nei nostri dischi ci puoi trovare tastiere vintage Casio, omnichord, xilofoni, drum machine, chitarre distorte, clap, fx videogame arcade.

L’Officina è un po’ la nostra sala giochi, ci piace sperimentare con le melodie e con le parole per riproporre in chiave italiana i suoni delle nostre band del cuore: Beach House, Buddy Holly, Ariel Pink, Moldy Peaches, Beat Happening, Dolly Mixture ecc.

A Francesco: Come nasce una vostra canzone? Ho letto del metodo cut-up per la stesura del testo, ma è una cosa immediata o più riflessiva? È uno sfogo scritto che successivamente pensi a musicare o la musicalità è una cosa contestuale?

Ma io ho sempre pensato all’Officina come un laboratorio di scrittura creativa o di musica pop sperimentale. Il processo è molto caotico, oserei dire pixellato.

Personalmente, fin da quando ero adolescente, tendo a immagazzinare pensieri scritti e melodie disparate, conservo tutto nel computer o su foglietti sparsi qui e là o sulle note del cellulare, li ammasso insieme nel corso degli anni e li tengo da parte, un po’ come se tutto ciò fosse un grande archivio di materiale pronto all’uso. Le ispirazioni possono arrivare da un libro come da un film, come da un disco, un dipinto, una foto. O anche da immagini o “illuminazioni“ che alle volte arrivano in modo inaspettato e fulmineo dall’alto.

Poi si, mi piace sperimentare con il cut-up, però cerco sempre di dare un ordine e un senso preciso a questo flash delirium di parole. È come mettere insieme un mosaico, fare un collage tra frame di pensieri apparentemente sconnessi ma con un filo conduttore comune. Cerco sempre di evocare un qualcosa di spirituale, un non-io, un Dharma Body. Una specie di fiaba ectoplasmatica.

Scrivere una canzone per me è come costruire un’autostrada, un caleidoscopio, un sentiero nella foresta in alta montagna con un inizio e una fine. Oppure è come una sorta di tappeto rosso infinito da percorrere, che però alle volte, può diventare improvvisamente un labirinto: un trompe-l’oeil ultra-sensoriale nel quale semplicemente potersi perdere.

Diciamo che, ascoltare un brano dell’officina è come farsi un giro in skate da ubriachi in un tunnel colorato spazio temporale. [Lol]

A Stefano: Quanto del regista Poletti c’è nei testi? Hai suggerito tu qualche film poi citato?

Oltre ai gusti musicali ho sempre condiviso con Fra anche la passione per un “certo” cinema indipendente, sperimentale, visionario, più correlato alla video-arte che alla narrazione (vedi Harmony Korine).

I testi sono molto immaginifici e visivi. Ho sempre pensato all’officina della camomilla come un film camuffato in abiti da band.

A Francesco: Nel percorso musicale/testuale ci vedo molta coerenza, soprattutto per quanto riguarda i testi. Tant’è che a un primo ascolto, tra colleghi dicevamo “questi sono i testi del De Leo solista, con la musica dell’officina”. Io direi “a cui si aggiunge l’ingresso della beat generation”. Penso alla stilo di Huxley o alle raccomandazioni che dai all’ormai amico Willy Burroughs. A proposito, i primi versi di “William” sono tratti da “Porto dei santi”?

Sì, l’estate scorsa mi sono particolarmente interessato al movimento Beat, in particolare a William Burroghs, il più dark se vogliamo della sua generazione. Per scrivere “William” mi sono ispirato a Pasto Nudo e soprattutto a Ragazzi Selvaggi, opera più di nicchia, che ho scoperto esser stato uno dei libri preferiti di Ian Curtis e di David Bowie (da cui ha preso spunto per gli outfit di Ziggy Dardust in chiave glam). Anche Patti Smith prese ispirazione dal protagonista del romanzo per scrivere il suo album culto Horses.

Inoltre, ho letto che per Ragazzi Selvaggi era stata scritta una sceneggiatura e c’era in cantiere l’idea di una trasposizione cinematografica, più precisamente di girare un Film Porno Gay a basso costo, ma poi il progetto è stato abbandonato. Anche i Duran Duran erano stati coinvolti per fare la colonna sonora, da qui il titolo della famosa hit The Wild Boys.

Il ritornello della canzone, invece, evoca il famoso caso di cronaca nera che ha visto William Burroghs come protagonista, ovvero l’episodio in cui lo scrittore sparò per sbaglio in testa alla moglie a un festino a Città del Messico, giocando al Guglielmo Tell con una pistola.

All’interno del brano, nella seconda strofa, viene anche citata la Shot Gun Art, metodo sperimentale di pittura creativa concepito dal poeta, che consiste nello sparare proiettili di vernice colorata con un fucile da caccia su tele, pareti o assi di legno, creando così, quadri del tutto astratti e psichedelici. 

A Francesco. Nei testi di “Dreamcore” citi gli anni ‘90. Se il ‘94 è riconducibile alla data di uscita del film Leon e ’99 ai famigerati eventi di Woodstock, c’è un ricordo particolare per il ’97? Spesso, inoltre, ritornano i fiori (viola, cinese…), come mai? C’è un fil rouge?

Sì, il ’97 fu l’anno di uscita di Gummo, film cult di Harmony Korine, iconico regista di cinema indipendente americano al quale ci sentiamo molto legati e affini come immaginario, spirito e attitudine. Ho scritto Woodstock ’99 subito dopo aver visto il documentario dell’HBO “Woodstock 99: Peace, Love, and Rage”.

Gli anni ‘90 vengono evocati spesso anche perché io sono nato nel ‘91, per me è una decade speciale e nelle canzoni di Dreamcore ci sono tanti riferimenti a quest’epoca.

Noi dell’Officina ci ispiriamo particolarmente ai film di quel periodo storico, siamo fan di Natural Born Killers, Hong Kong Express, Kids, Lèon, Trash Humpers e dell’estetica VHS in generale.

Poi, i fiori sono un elemento di cui abuso volentieri nella scrittura, perché per me sono estremamente psichedelici e li associo alla libertà e alla follia. In particolare, il fiore cinese è preso in prestito sempre da Burroghs:

“Una goccia di sangue di un drogato sboccia come un fiore cinese dentro a una siringa”

La trovo un’immagine, per quanto cruda, molto poetica.

A Francesco: In “Rimbaud party”, il “dico fuck alle slot machine” è un grido di Alex Supertramp che fai tuo o un “fuck” al passato? Penso alle Slot VLT citate in “città mostro di vestiti” La canzone è stata scritta come sfogo/dedica per/a qualcun* in particolare?              

Sì, sia la figura di Rimbaud che di Alexander Supertramp mi hanno sempre affascinato sin da ragazzo, sono un grande fan di entrambi e non li avevo mai citati all’interno di un brano.

Anzi a dir la verità in una vecchia canzone dell’Officina, “Meringa Lexotan”, cito Rimbaud proprio negli ultimi versi della canzone, ho preso in prestito i suoi famosi “corvi deliziosi”, che ho rubato da una poesia di cui non mi ricordo il titolo. (Per la cronaca, la poesia in questione è Les corbeaux)

Poi sì, il brano è dedicato a più persone.

A entrambi: Invece, il “fuck alle pop star” è un rifiuto anche all’idea di snaturarsi nel diventare pop? A tal proposito, avete visto Sanremo? Se sì, vi è piaciuto qualcun*?

Non ci interessa molto guardare la televisione. Stefano non ne possiede una da vent’anni e si rifiuta categoricamente di guardare programmi televisivi. È un fan di GG Allin.

A me (Francesco), invece, è piaciuto Gazzelle.

A entrambi: C’è una canzone che non è uscita esattamente come immaginata?

Mi spiego meglio, ricordo interviste di Fra dove, magari lì condizionato dall’etichetta (Garrincha ndr), dicevi come live diverse canzoni sarebbero state più rock rispetto all’album. Ora, avendo anche una libertà maggiore (se non totale), c’è qualche canzone, comunque contenuta nell’album, però non uscita al 100% come volevate, alla quale vi siete arresi al risultato ottenuto o che magari a posteriori avreste cambiato? O ancora, una canzone immaginata in un modo e poi in studio trasformata radicalmente?

No, direi che siamo molto soddisfatti del risultato finale che abbiamo ottenuto con Dreamcore. Poi ovviamente un disco non uscirà mai esattamente come te lo eri immaginato al 100%, è normale.

In questo ultimo lavoro abbiamo registrato tutto come volevamo noi, e ci sembra che giri nel modo giusto. Poi noi in ogni caso siamo grandi fan delle demo, ci piace la spontaneità della prima take registrata col cellulare, prima o poi faremo uscire anche quelle: magari su Soundcloud.

A entrambi: C’è stata una selezione tra numerosi pezzi? Come mai “Dandy Candy” non è stata inclusa nell’album? Era più una dichiarazione di intenti per far capire cosa sarebbe arrivato poi con Dreamcore?

Dandy Candy è un regalo che abbiamo fatto ai nostri fan dopo tutti questi anni di silenzio. I riff di chitarra e la melodia vengono da una vecchia demo che avevo registrato nel 2016, abbiamo deciso di recuperarla per creare una nuova canzone ripartendo da zero. In realtà poi l’abbiamo inserita nel Vinile di Dreamcore che uscirà a breve e sarà disponibile acquistarlo online.

A entrambi: Cosa prevede il live? Ci sarà qualche pezzo del De Leo solista (Magari anche riarrangiato) o sono mondi a sé stanti? Avete pensato di pescare qualcosa tra quelle dell’ “Antologia della cameretta”?

I nostri live tenderanno a diventare sempre più sporchi e Punk, sempre con l’aiuto del nostro pubblico bellissimo e di cui siamo innamorati.

A Francesco: Com’è stato ritrovarsi nella colonna sonora di Mr & Mrs smiths con Muse?

Beh, chiaramente è stata una grandissima soddisfazione personale, soprattutto perché non si tratta di un singolo appena uscito, ma bensì di un brano del 2018. Non è nemmeno una canzone che ha mai fatto il botto, non è una hit da Spotify, non è stata trasmessa nemmeno da una radio nazionale, è un pezzo irregolare con un testo molto esplicito, vietato ai minori e per questi motivi, tutta questa storia ha dell’incredibile.

Poi so che Donald Glover, aka Childish Gambino, è anche sceneggiatore e produttore della serie, oltre che a essere l’attore protagonista. Quindi di per certo è stata selezionata e approvata da lui in persona e questo devo ammettere che mi fa volare.

Ho visto anche che Tyler the Creator, qualche giorno fa, ha fatto una storia Instagram per spingere la serie. [LoL]

Forse è il primo caso in Italia, non vorrei sbagliarmi, che un pezzo Indie contemporaneo degli anni ‘10 del nostro paese sia finito a far parte della colonna sonora di una serie internazionale americana, made in USA, fatta interamente da Americani. Boh, assurdo.

Per me rimane ancora una cosa fuori da ogni logica, allucinante.

Bella per Childish, Bella per Prime Video!!!

A Francesco: Parlando con altri colleghi del settore e amici, un po’ tutti concordavano col fatto che vi foste fermati proprio in concomitanza dell’esplosione del genere indie/lo-fi. Giusto un attimo prima, cronologicamente parlando, di vederne quindi tutti i benefici di quanto seminato: penso ai palazzetti, ai concerti nei teatri o magari nel farvi conoscere a un pubblico più ampio. Comprendendo come abbia sentito l’esigenza di sperimentare, già iniziata a sorgere con Palazzina Liberty (un disco a mio avviso sottovaluto e dove già si vedevano dei prodomi di queste atmosfere), cosa pensi di questa riflessione e quanto pensi che questa sperimentazione ti abbia arricchito?

Io penso che ogni progetto musicale, ogni artista, ogni canzone abbia bisogno di fare il suo percorso. Sperimentare è necessario.

Viviamo in tempi saturi e molto competitivi per quando riguarda il mondo del Music Business. Dobbiamo sempre ricordarci, però, che la musica non è solo una gara a chi fa più sold out o a chi fai più soldi.

Ci sono mille scorciatoie e trucchetti per “arrivare” primi. Ma non è questo il punto. Anche se tutto è diventato un mercato, una strategia di marketing, un numero. Bisogna sempre ricordarsi di quello che si sta facendo e da dove si è partiti.

In ogni caso, il vero potere dell’arte in generale, è quello di sopravvivere e di rimanere nel tempo. Nel cuore e nell’anima delle persone.

Per questo motivo mi sento di dire che noi dell’officina siamo un po’ i Moldy Peaches italiani, un gruppo che non ha avuto subito un successo stratosferico da stadio o palazzetto e che probabilmente non ce l’avrà mai, ma che con il passare degli anni, passo dopo passo, sia riuscito a raggiungere più generazioni e a riscuotere dei grandi risultati in modo genuino e naturale.

A entrambi: State leggendo qualcosa in questo periodo?

FRA. Sì, io attualmente sto rileggendo “Le porte della percezione” di Aldous Huxley, un saggio filosofico- scientifico che raccoglie e descrive in modo dettagliato le sue esperienze con la mescalina negli anni ‘50. Poi avevo iniziato anche un libro cult psichedelico giapponese anni ‘80 che si intitola “Sayonara, Gangster”.

Ho finito da poco “Dance, Dance, Dance” di Murakami e “Bunny” di Mona Wad, entrambi mi sono piaciuti moltissimo e ve li consiglio.

STE. Io sto recuperando un po’ di classici; “Marco Aurelio”, quello che mi manca di Dostoevskij e quello che mi manca di Philip K. Dick.

Intervista di Simone Moggio

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