20 anni di Verdena, “Un mondo del tutto differente”

Questo non è un articolo, è un dono alla band emotiva per eccellenza. Con emotiva non intendo dire Emo, anche se con gli Emo per un po’ se la intendevano. I Verdena sono capaci emozionarsi, nel male e nel bene, e di farci emozionare. Se c’è una cosa che ho capito in vent’anni di ascolto è che anche afferrando poco o nulla ho sempre compreso tutto. Tutto di loro, tutto della loro musica. I Verdena dividono e regnano tra quelli che con la testa cercano una ragione e la pretendono finendo così per non apprezzare, e quelli che di pancia, invece, si lasciano trascinare e vivono la passione.

Perché di passione si parla. Passione che ti porta a rinunciare ai canoni, a una vita più facile. Che ti conduce ai limiti delle possibilità, alle colonne d’Ercole della musica. Passione che necessita di sacrificare una vita per una profonda e tormentosa afflizione al servizio dell’arte. E questo i fan dei Verdena lo sanno bene e soprattutto lo sentono, tanto da diventare dei veri e propri seguaci devoti, iniziati religiosi: non a caso si è parlato di passione. Questo non è un articolo ma un sacrificio agli dèi sull’altare della musica italiana.

Questo è un racconto nel senso letterario del termine, che ha come protagonisti tre personaggi molto simili al trio bergamasco, racconto nel quale sono presenti una serie di citazioni di album, di titoli e di testi delle canzoni, che i fan più accaniti possono stanare come in un detection game, altrimenti si può semplicemente godere della storia.

Tanti auguri Alberto, Roberta e Luca questo è il mio regalo per voi.

 

 

Un mondo del tutto differente

– Eugenio, stai bene?

Angie, con una mano appoggiata sulla sua spalla, era accovacciato su di lui. Sul pavimento freddo lo smartphone si illuminava a intermittenza poco lontano. Attraverso lo schermo rotto i pixel disegnavano forme psichedeliche.

Un Requiem suonava nella testa di Eugenio. Forse per quel gioco che faceva spesso da bambino: quando sentiva un suono lo collegava a una melodia, oppure ascoltava per sbaglio un discorso e da una parola cominciava a cantare il testo di una canzone. Capitò anche in quel momento, era più forte di lui.

Il colpo appena ricevuto sulla testa era diventato quello greve del timpano dell’Introitus di Mozart. Un’esplosione nucleare. Cominciò a cantare tra i denti, col viso affondato sul tappeto del salotto, molle come una medusa, fino alla fine. 4:27 minuti di collera e di dolore. Poi si riprese.

– Dov’è? – le chiese.

Lei non rispose, Eugenio le la mano fredda, voleva una buona risposta. Sentì una leggera nausea, la testa gli ronzava come una centrifuga finché si rialzò da quel letto di mosche. Lo merito? Si chiese.

– Ti ho chiesto dov’è.

– È uscito. Ha detto che gli mancava l’aria – rispose Angie con voce flebile. Gli occhi di un blu sincero, i contorni sporchi di eyeliner sbavato. Una bambina in nero, spaventata e tremante.

– Aha – sussurrò Eugenio sgranando gli occhi e piegando leggermente la testa. Qualcosa di umido gli bagnava la faccia, poi si accorse della chiazza sul tappeto. Passò la mano sull’occhio sinistro e osservò le dita macchiate di rosso scuro. Aveva la vista offuscata dalla botta, il sangue che gocciolava dal sopracciglio aperto. Avvertì in bocca un sapore ferruginoso, un gusto che gli ricordò quello dell’agnello crudo. La carne prima di essere messa a bagno per ore in acqua e limone. Le costolette che cucinava loro madre per Pasqua. Afferrò il telefono rotto e lo scaraventò sulla parete di fronte a lui, per terminare il lavoro.

– Eugenio non fare così! Lascia perdere – Angie si guardava intorno spaesata, i suoi movimenti erano rallentati. Non capisce, pensò Eugenio, dopo tutto questo tempo non ha mai capito. Il sangue sgorgava lento e ribolliva, l’ottusità volontaria della ragazza lo rese ancor più feroce.

Lei disse:

– Dove vai? Ti sanguina la testa.

– Was?

Eugenio afferrò la giacca a vento lasciata poco prima sul divano, la infilò e si diresse verso la porta d’ingresso, penzolante, minaccioso, contro la ragione. Lo sguardo del tutto straniato, magrissimo. Non parlò più. Due occhi giganti si spalancavano e si nascondevano dietro le palpebre che si si chiudevano lentamente. Attorno a lui un campo magnetico di tensione palpabile, qualcosa diceva: non ti avvicinare.

– Lascialo sbollire.

Eugenio la ignorò, si trascinò dietro la porta poi, prima che la sbattesse violentemente, decise di trattenerla con una mano. La accompagnò per l’ultimo tratto appoggiandola allo stipite.

Un gesto secco, un suono cupo.

Chiusa definitivamente, non fu per sbaglio.

Poi ricordò di aver percorso in fretta il viale, sapeva dove l’avrebbe trovato. Il gelo di una notte di fine inverno, il nevischio che si appoggiava sui tetti delle automobili, neanche una stella. Quella canzone ostinata continuava a rimbombargli nelle tempie mentre Eugenio arrivò nei pressi del grattacielo, ma di lui neanche l’ombra. La luna grave nel cielo sembrava solo un grande sasso che da un momento all’altro sarebbe potuto precipitare irrimediabilmente sulla città.

– È solo lunedì – pensò. Erano passati pochi giorni dal ritorno del fratello e avevano già litigato furiosamente. Di solito capitava per una dose distribuita male. Oppure per la musica, forse l’unica cosa che li univa per davvero, l’unico modo che avevano per comunicare quando l’ultranoia li trascinava verso il basso, creando barriere insormontabili, come alieni fra loro. A volte manifestavano una spontaneità come in un rapporto tra due bambini, che comprendeva eccessi di entusiasmo come eccessi di tensione. In questo mood surreale, senza nemmeno parlare, di colpo si trovavano al proprio posto. Con la musica.

Per cosa avevano litigato quindi? Una donna. Non gli sembrava possibile.

Mentre pensava, a Eguenio pareva di averlo visto da lontano: camminava sul ciglio del ponte che sovrastava l’istmo. Un faro irradiò la sagoma del fratello che afferrava i tubi dell’impalcatura, i suoi capelli lisci e lunghi venivano sbandierati dal vento che col suo fragore cantava un inno al perdersi. Una grossa nave danzava un Waltz nelle acque in tempesta, tra razzi, arpie inferno e fiamme. Eugenio corse verso di lui, sembrava avesse delle scarpe volanti, gareggiava contro il tempo. Poi urlò il suo nome.

Derek.

Nessuna risposta, sembrava attonito. Intanto la neve si sciolse di colpo sotto il diluvio che sovrastò la città immane. Quando fu abbastanza vicino per riconoscerlo cercò di afferrargli la giacca. Ombre che si scontrarono, si sommarono e poi si allontanarono irrimediabilmente.

Due sagome. Due animali.

Poi sentì un suono, ne era sicuro.

Una voce.

La sua forse.

Il caos strisciante, poi il nulla.

In seguito, Eugenio ha cercato a lungo di ricostruire i fatti, ancora oggi cerca di ricordare le ultime parole che aveva rivolto al fratello, come una fissa. Di quello che è successo prima e di ciò che è stato dopo ricorda tutto, ogni minimo particolare, ma incredibilmente, ogni volta che con la mente cercava di ripercorrere quel preciso istante, il racconto sfumava in suoni ovattati e immagini inconsistenti. Per anni si sarebbe sforzato di aggiungere pezzi alla sua storia, non che fosse necessario, il caso era stato archiviato come suicidio, ma per lui era importante per capire come erano andate davvero le cose. Voleva trovare un modo semplice per uscirne. Voleva un miglioramento e vivere di conseguenza. Percorrendo la storia a ritroso, era sicuro che sarebbe dovuto tornare fino a quella volta, venti anni prima.

Lui gliel’aveva chiesto chiaro e tondo: “Scegli me”, ma Angie nonostante tutto se n’era andata. L’aveva presa male, peggio di un tradimento. Da quel momento si era rivolto al dott. Huxley per cercare una nuova luce, districare i pensieri ossessivi che gli arrovellavano il Gulliver. Ma la psicanalisi non serviva più. Eugenio si chiudeva in sé stesso e iniziava a immaginare un mondo del tutto differente, come sotto una lente caleidoscopica. Tamburellava con ogni oggetto che gli capitava per le mani, rispondeva alle domande con frasi assurde e senza senso. Credeva di far parte di un incubo, come in un film.

“Come stai oggi?”

“Ejabbabbaje”.

“Non hai voglia di parlare?”

“Opanopono”.

“Non fa niente, quando sarai pronto me lo dirai”.

“Loniterp”.

Il dottor Huxley reagì a quell’alienazione con una logorrea cronica che sovrastò il malcapitato. Dopo aver raccontato tutti i suoi perché, finiva sempre con la prescrizione di gocce, pasticche, oppure tirava fuori qualche intruglio di infinita gioia dal cassetto della scrivania, abbassava gli occhialetti tondi e somministrava la cura. Quella volta ne prese 12,5 mg. Eugenio uscì e si mise le cuffie con la solita musica sparata forte nelle orecchie. Quello che riusciva a ottenere erano solo 40 secondi di niente.

Immagini: elaborazioni personali

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