Beati i sottaceti: (ri)scoprire Rino Gaetano

Voce sarcastica che nei ritornelli quasi urlati diventava velatamente gutturale. Denunce politiche e sociali mai invece velate, ma sempre sbandierate dentro il marasma di riferimenti che popolavano i suoi testi, soltanto all’apparenza leggeri e disimpegnati.
Scrivere di Rino Gaetano, a quasi quarant’anni dalla morte, fa un certo effetto. Primo perché, a riascoltarlo oggi, quarant’anni (trentanove per la precisione) non sembrano nemmeno passati. Secondo perché c’è sempre una sorta di timore reverenziale nell’approcciarsi ai grandi cantautori, siano essi monoliti inossidabili o svolazzanti meteore.

Per certi versi, morendo ad appena trent’anni, Rino una meteora lo è stata per davvero. Proprio come una meteora, ha segnato di luce quegli anni di piombo altrimenti bui, con musiche e canzoni irriverenti: forse fastidiose per l’establishment dell’epoca, ma che oggi, a conti fatti, ci mancano. Eppure, per quanto apologie, inni e critiche, su questa figura, si sprechino, si ha come la perenne sensazione che nel mondo di Rino Gaetano non sia mai possibile penetrare per davvero. Quasi che quella coltre ironica e a tratti spietata che ne ha caratterizzato la gran parte delle canzoni, continui a celarne i veri sentimenti, le vere motivazioni, i veri “perché” del suo nonsense. D’altronde, la parola nonsense si esime per sua stessa definizione dallo svelare i propri “perché”. Forse persino dall’averne.

Tuttavia, in questo triste anniversario, ci sono ancora tre canzoni di Rino Gaetano che oggi passano in sordina rispetto ai grandi classici, ma che sarebbe bene riscoprire e gustare ancora, per sentirlo di nuovo vivo in mezzo a noi.

Capofortuna

Rino Gaetano fa il suo ingresso nel panorama musicale italiano in un momento politicamente caotico per il nostro Paese. Non fu un cantautore militante, come invece molti altri in quegli anni. Si limitò ad osservare sornione gli eventi, dall’angolo privilegiato della sua arte. Incontaminato come il bambino che urla a tutti quanti “il re è nudo”, Rino ha saputo fare della sua musica scudo e contemporaneamente megafono, per evidenziare le contraddizioni di un tempo storto. La sua critica si spandeva (spendeva ed effendeva) a 360 gradi sulla società che lo circondava, sulla politica che ne governava le sorti, sui costumi che da quella politica si facevano parimenti governare. E chi quel governo lo rappresentava non ne usciva di certo indenne.

Dallo stesso album che vede Rino elencare a iosa politici e personaggi dello spettacolo come nel celebre brano che dà il titolo al disco, Nuntereggae più (“si dedicherà prossimamente a mettere in musica le pagine gialle” commentò a tal proposito Maurizio Costanzo), emerge invece lo scanzonato ma anonimo ritratto di un leader qualunque. È Capofortuna, il politico medio affannato nella ricerca di consensi. In questa canzone, però, ciò che si rileva in modo prepotente è soprattutto il ritratto di chi quegli stessi consensi, a Capofortuna, glieli riserva: il pubblico nutrito dei suoi numerosi elettori, tutti ammaliati dalla “classe di ferro” di chi “ha fatto la guerra” ed è “tanto bello, che sembra Gesù”. La prima volta, l’ascolti e ridi. L’ultima, l’ascolti e piangi. Perché l’attualità di questa denuncia senza filtri è autenticamente disarmante.

Escluso il cane

Raccontare la solitudine a se stessi non è mai semplice. Raccontarla agli altri, in musica, espone al pericolo di essere fraintesi, dire cose già dette, frasi già pensate, scadere nel melodramma o suscitare la compassione di chi, in fondo, non può capire. Perché ognuno è solo a modo suo. Proprio per questo, Escluso il cane si rivela un pezzo geniale.

“Chi mi dice ti amo?”. Ascoltando queste prime cinque parole si ha la sensazione di essere davanti all’ennesima canzone dell’amore perduto, dedicata ad una donna lontana. E tale sensazione si radica ancora di più quando, pochi istanti dopo, queste cinque parole vengono ripetute ancora, disperate. “Ma togli il cane”. Una sberla in faccia. Non si parla solo di un non meglio precisato mal d’amore, bensì di un male molto più grande e trasversale: la solitudine. Quella solitudine che attanaglia senza sconti l’umanità intera: tutti i “miscredenti e ortodossi” che per solitudine si vedono costretti a “paranoia e dispersione, inerzia grigia e films d’azione”. La solitudine cantata in questo brano la possono capire davvero tutti, indipendentemente dall’esperienza che ognuno fa della propria.

Le beatitudini

Le beatitudini può essere considerato, senza esagerare, il testamento di Rino Gaetano. Oltre ad essere una delle ultime canzoni da lui incise, è soprattutto un pezzo in cui i temi affrontati da Rino lungo tutto il corso della sua discografia si trovano perfettamente riassunti. Siamo di fronte ad un conglomerato di immagini, nitide e confuse al contempo, elencate con intelligente e surreale grazia. La stessa intelligente e surreale grazia che caratterizza peraltro le beatitudini evangeliche.

I beati di Rino Gaetano sono allora tutti quelli di cui ha sempre cantato le gesta e che trovano qui epitome conclusiva. Sono beati “i bulli di quartiere perché non sanno quello che fanno”, ma anche “i parlamentari ladri, che sicuramente lo sanno”. Sono beati “i bambini che sorridono alla mamma, beati gli stranieri e il soufflé di panna”. È beata la sua “prima donna, che mi ha preso ancora vergine, beato il sesso libero, ma entro un certo margine”. Ed infine, fra sottosegretari e sottufficiali, sono beati pure i “sottaceti, che ti preparano al cenone, beati i critici e gli esegeti di questa mia canzone”.

Che cosa manca oggi di Rino Gaetano?

Tutto. Manca la comicità seriamente accostata alla canzone d’autore. Manca il pop mainstream ma non per questo disimpegnato. Infine, manca l’ironia vera e mordace, quella che rischia sempre di arenarsi sugli scogli dell’indifferenza di chi ascolta ma che, alla fine, non affonda mai. Insomma, manca proprio Rino Gaetano: un artista che ci è stato tolto davvero troppo presto, trentanove anni fa.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *