Di quando l’Ultima cena sabauda di Willie Peyote ci andò di traverso

Questa volta l’aspettare al freddo il bus, che dalla periferia di Torino avrebbe dovuto riportarmi in zone un po’ più familiari, si è rivelata un’esperienza a dir poco interessante. Soprattutto per quel che riguarda la varietà di “materiale umano” che ben si prestava ad un’attenta e indisturbata osservazione socio-antropologica. Che meraviglia. Lo ammetto, ci passerei le giornate. Alla fine, comunque, complice un guasto dell’indicatore delle fermate e la mia poca confidenza con i mezzi pubblici, sono scesa pure dove non dovevo, sfiorando così la mia personal(e/issima) soglia di disperazione isterica. Ma questa è un’altra storia, magari anche interessante eh, non dico di no.

Il fatto rilevante, a monte di tutto ‘sto pippone, è però che, caso più unico che raro, mi sia trovata pienamente d’accordo con la maggior parte delle considerazioni a caldo di quei pischelletti che, come me, erano appena usciti dal concerto di Willie Peyote. E che, come me, erano pure in attesa dello spostapoveri. Già pregustavo la situazione di sovraffollamento e conseguente stipamento che avrei dovuto eroicamente affrontare di lì a poco. Nel frattempo, con le poche energie mentali rimaste, mi sforzavo di pronunciare un’analisi il più possibile oggettiva e ben strutturata di ciò cui avevo appena assistito. Ma alla fine m’era uscito solamente un: “quarta volta che lo si va a sentire quest’anno, mo’ basta”.

E, in realtà, non senza un velo di delusione. Diciamo che il messaggio che volevo far passare era forse più una roba del tipo: “Eh no Willie, ti ci metti pure te adesso”. E diciamo anche che la mia attuale (transitoria, spero) fase di sfiducia e di quasi sconforto nei confronti di un certo panorama musicale italiano contemporaneo, rischia pure ora, mentre scrivo, di offuscarmi un po’ la vista. Ma, al fine di evitare una deriva nichilista magari troppo affrettata, è il caso di chiarire meglio l’oggetto delle mie perplessità.

Le aspettative per questa Ostensione della Sindrome erano parecchio alte

Partiamo dal constatare che, soprattutto col Sindrome di Tôret tour indoor e con la successiva leg estiva (basti citare il Concerto del Primo Maggio, MI AMI, Sziget e Flowers Festival), il buon Guglielmo c’ha abituati bene. Aggiungiamo anche il Best live 2018 per la KeepOn Live Parade. ‘Nzomma le aspettative per questa Ostensione della Sindrome erano parecchio alte, e, come si sa, non sempre è facile rispettarle in pieno.

A Torino poi giocava pure in casa. Per dire, un possibile compagno di curva granata è stato capace di tenere in alto per tutta la durata del concerto – chissà come avrà fatto (?) – la maglia dell’ex capitano polacco: “…restiamo hardcore come Kamil Glik”. Ecco, proprio il brano che chiude l’album del 2014, Non è il mio genere, il genere umano, è stato anche uno di quelli in coda alla scaletta dell’Ultima cena sabauda [tra l’altro dedicato, direi giustamente, al povero cristo della maglietta]. E dal mio punto di vista non a caso.

‘Sto giro, infatti, esagerando forse un poco, in generale Willie mi ha ricordato molto più un fighetto strapagato “alla Matri e alla Borriello” e (molto) meno un calciatore incazzato che, alla faccia del fair play, c’ha il vizietto di far “cadere i corpi a terra”. Non tanto per una questione di scelta di brani, quanto per una sorta di nuovo codice estetico-formale da rispettare, conseguente all’evoluzione e all’affermazione su più ampia scala del suo personaggio: “ha raggiunto il grande pubblico. È un fatto, quindi grazie”.

Starà ancora cercando di capire in che modo incarnare il più coerentemente possibile questo livello successivo, facendo però attenzione a non tradire in nessun modo quella vena hardcore, cinica e disincantata, che gli è propria? Se così fosse, ecco che piazzare in zona Cesarini un pezzo come Glik e uno slogan come quello avrebbe il suo perché.

In ordine sparso, poi, altri appunti un po’ da rompicojoni

Dall’accompagnamento di una pazzesca Sabauda Orchestra Precaria Willie esce leggermente in ombra e meno convincente rispetto al solito. Magari anche solo per questioni di stanchezza accumulata eh! La sera prima, infatti, era stato impegnato nella prima delle due date torinesi e, almeno per ora, non mi risulta nemmeno l’abbiano universalmente promosso a “Superuomo de’ noialtri“. Gli effetti pirotecnici da palco alla Superbowl, in C’era una vodka, a mio parere non hanno risollevato di molto la situa (er botto me lo aspettavo da qualcos’altro). E poi daje, se inviti Samuel dei Subsonica a duettare con te, fagli fare qualcosina in più che una strofetta buttata lì giusto per presenza.

Non per cadere in quella logica semplicistica e oppositiva dell’etichettamento, tanto “cara” allo stesso Peyote, ma credo che la questione risieda in parte qui:

Da me cosa si aspettano? /
un disco rap, /
un disco originale per restare hardcore ma un po’ più commerciale

Lui ci lascia fare, accetta tutto di buon grado.

Perché forse è tutto (e solo) un gioco di parti, di ruoli. E forse dovremmo anche riconosce ed accettare il fatto che non tutti debbano per forza sentirsi parte di qualcosa. Forse sì. Sicuramente, però, facciamo tutti, indistintamente, parte del problema.

E comunque prima ho detto una bugia: tranquillo Willie che ti verrò a vedere pure la prossima volta.

Foto in copertina di @nose_asfvck

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