Tanto cchiù nnera d’ ‘a mezanotte nun po’ venì, La Maschera per la prima volta a Torino

Vibra lo smartphone, è Vittorio. Apro la conversazione.

Clicco Play. La ascolto e confermo subito la presenza, è la prima volta che la band viene a Torino.

Vittorio è un mio collega scrittore, partenopeo fino al midollo. Prende in mano la situazione e organizza la serata:

Quando ripenso al calore della mia città, Napoli, non devo fare proprio niente. Che vuol dire? Che, proprio dietro l’ombelico, c’ho qualcosa come la camera magmatica di un vulcano che spinge fuori tutto il calore possibile. Che vuol dire? che posso vivere anche in Norvegia, ma quel calore nessuno lo spegne anzi, qualcuno ci si riscalda pure. E quindi? Ecco, se viene la Maschera a Torino: esplodo.

Ah ah, è così. Ho scritto a Mattia per primo, lui mi fornisce sempre le migliori informazioni in fatto di musica e concerti, quindi per una volta ho voluto ricambiare. Ho pensato che a lui “Smile on your face” sarebbe proprio piaciuta. Allora niente, non ce l’ho fatta a non scrivere a altre 7 o 8 persone. Ho noleggiato un pulmino Volkswagen, ho dato a tutti appuntamento in quadrilatero e, non ci crederete, ma sono venuti tutti e otto. Anzi, per strada siamo diventati 9. Nessuno conosceva La Maschera.

Siamo partiti, direzione Off Topic. Ero felice come un bambino alla vista del mare il primo giorno d’estate.

Sulla pagina facebook il locale si definisce come il nuovo hub culturale della città di Torino, progettato dal TYC – Torino Youth Centre. Sorto sulle ceneri delle ex Officine Corsare in via Pallavicino 35, una zona tranquilla dove si trova facilmente parcheggio. Ci presentiamo circa un’ora prima del concerto, il locale è completamente rinnovato, è presente anche un Bistrò che ha scelto un arredamento minimale ed elegante, niente sfarzi, niente ostentazione, solo un piccolo palco a mo’ di salotto in fondo alla sala a creare la giusta atmosfera. Ci avviciniamo al bancone ordiniamo quattro Ipa, tre bicchieri di bianco, un’acqua tonica e un bicchiere di dolcetto per me, Dogliani per la precisione.

Il barista è giovane e simpatico, ha la chiacchiera facile ma non invasiva, amabile come il dolcetto. Discutiamo per un attimo dell’alone di “coolness” (la stessa sbiadita sensazione che provo che nell’utilizzo di inglesismi) che aleggia intorno ai vini Bio proposti e che ho subito declinato. Pensando che non fossi un amante del genere il barista mi confida che anche lui non li gradisce, ma che oggi come oggi bisogna averne almeno uno in carta per accontentare i clienti. Condividiamo anche questa visione, forse perché abbiamo fatto lo stesso lavoro. Finiamo il nostro drink e, uscendo a fumare una sigaretta, ci fermiamo a giocare a biliardino quando sentiamo dei bassi provenire dalla sala concerti. Forse, dice Vittorio, stanno per iniziare.

La sala è stracolma, ci piazziamo sulla destra, molto vicino al palco, la band non si è ancora presentata. Per ammazzare il tempo chiedo al mio amico:

“Come hai detto che si chiama l’ultimo l’album?”

“Parco Sofia!”

“Sarebbe?”

“Matti’, Parco Sofia sta vicino a Napoli, là a vit è complicata, ma nonostante tutto, tutti tenn ‘na forza particolare. Sai pecché so bravi sti ragazzi de La Maschera? Pecché hanno capito che robb è a musica ver’. T’è capitato e sonà mmiezz a via, ne so sicuro. Tieni presente: è sera, tieni due chitarre e un bel gruppo, stai nu poc mbriac e va a fini’ accusì: mentre suoni rir fin a domani. Tieni presente”.

“Figo!”

“Ecco, con loro è sempre quella sensazione llà. Fanno canzoni che parlano di persone, di piazze, di difficoltà, di ragazzi che nonostante tutto tengono la forza di sognare. Vieni”.

Ci avviciniamo al banchetto del merchandising, Vittorio prende in mano il vinile dell’ultimo lavoro de La Maschera. C’è raffigurato un ragazzino su una piroga senegalese che naviga sospeso in aria tra i vicoli di Napoli.

“Guarda llà, sulla punta della barca, un piccione… Chist tenn conto pure e chi nun t’è e forze. E poi, ‘sta cosa della copertina, il ragazzino che vola insieme ai pesci, insomma: st’illusione, c’azzecca con ‘na canzone che si chiama “Dimane comm ajere”, dopo sicuro la fanno. Ecco iniziano, stai a sentì”

Il concerto si apre con Pullecenella, racconta della famosa maschera napoletana che rappresenta un attore-contadino che vaga per le strade tra mille sfortune e peripezie, senza perdere mai la speranza. Un cuore pulsante e spensierato che riconosco in Vittorio. Mi colpisce il verso: Tanto cchiù nnera d’ ‘a mezanotte nun po’ venì, vengo a sapere che si tratta di un vecchio detto di saggezza popolare.

Il concerto continua con Te vengo a cercà.

“Ecco appunto, questi cantano l’incontro tra i popoli. E tra dodici corde, bonghi, trombe, flauti e strumenti che chissà da quale parte del mondo vengono, te fann senti’ certe storie… Ti fanno senti proprio il bello delle altre persone, del mondo. Te fann veni’ a tremarella”.

Scinn’ ‘a copp’ ca nun può stà fermo a guardà /
Nuje cantamme… /
e ‘o stesso sole c’ abbrucia e ce fa ‘nnammurà

Dopo aver brandito chitarra, tastiera e armonica, Roberto caccia un piffero e inizia a suonare. La band si accoda con un accompagnamento che farebbe ballare anche i sassi, è un ritmo da spiaggia, la sensazione è proprio quella. Finito il pezzo, riprendiamo fiato.

“Come quando tieni due chitarre, un bel gruppo di amici e balli fin a domani. Proprio così. È ‘na festa”.

Roberto ora racconta che quella che sta per cantare è una vecchia serenata dell’800, riarrangiata. Lascia che la chitarra acustica gli scivoli dietro la schiena per suonare la tastiera. Dall’alto, un fascio di luce bianca lo investe, dalle sue dita viene fuori una melodia che conduce il pubblico in un’atmosfera notturna.

Non di rado ci diamo una pacca sulla spalla. Degli altri sette, alcuni si sono dispersi tra il pubblico di cumpagni e gli altri ci guardano ogni tanto e ridono. Ridono. So’ felici. Il massimo arriva quando partono con “Smile on Your face”: il pubblico esplode. Cresce, cresce, cresce fino a che, alla fine del pezzo ne partono subito altri tre: un medley di Jailhouse Rock di Elvis (con le parole a caso, come la canterebbe Celentano), Tutti i Frutti di Little Richard, chiudono con Blue Suede Shoes, sempre di Elvis.

Ci ritroviamo zuppi di sudore. Lo so, non è una bella immagine. Ma eravamo zuppi e contenti di esserlo.

E o mare o teng, for ‘a finest /
E si me sceto stuorto l’uocchi vedono solo chell’ che voglio /
Chell che voglio oh sacc già la vita va così /
Oggi nasce n’ammore /
Dimman’ può frnì … /
Senza fa rummore /
Senza fa rummore /
Senza fa rummorrrrre.

Il concerto continua tra balli e cori, si conclude poco dopo tra gli applausi e i sorrisi. Quello che mi porto a casa è un palpabile sentimento di verità, una veracità sentita, appassionata. Le mie origini mediterranee, che dimentico spesso, riaffiorano facendomi sentire per la prima volta un senso di appartenenza, parte di una sorta di comunità invisibile che si raduna a ballare intorno al fuoco nelle notti d’estate, e vi assicuro che non capita spesso, soprattutto a Torino d’inverno. Mi sono ricordato che non sono necessari tutti quei fronzoli e ostentazioni, quelle apparenze di cui ci vestiamo per sembrare più forti, quelle etichette “Bio” a farci sembrare più sinceri o fighi. No, ed è tutto dimostrato. O forse perché levando quella maschera quotidiana ci si sente tutti più liberi e meno soli. Grazie Vittorio e grazie a La Maschera.

Di Mattia Muscatello e Vittorio Punzo

Foto:
Personali, scattate al concerto.
Foto copertina presa dal sito ufficiale de La Maschera.

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