Materazi Future Club: per sempre viva la panchina e la serie B

Il nuovo EP dei Materazi Future Club si chiama Punkinari, ed è composto da tre brani. Scrivere di un lavoro che ha al suo interno tre pezzi può sembrare una mossa tipica di quei blog o quei giornali che recensiscono le canzoni singolarmente. Per carità, evviva la libertà di fare quello che si crede – però mi è difficile pensare che questo tipo di recensioni non sia mosso esclusivamente dall’ego di chi le scrive. Una canzone dura circa tre, quattro minuti – scriverci un articolo intero a riguardo mi sembra solo una dimostrazione di verbosità incontrollata. A meno che non si tratti, che so, di We Cry Together di Kendrick Lamar, ma pure lì c’è da capire. Ben venga raccontare l’artista, le sue idee, i suoi messaggi. Recensire le canzoni singolarmente, però, mi pare che non faccia altro che contribuire all’inquinamento informativo tipico dell’era dei social. E poi, sinceramente, ma chi se le legge?

Detto questo – il motivo per cui ho deciso di raccontare Punkinari è piuttosto semplice.

Scrivere di questo EP è un pretesto per poter affrontare i miei tre argomenti di conversazione preferiti, ovvero la musica, il calcio visto dagli occhi di chi sta in panchina e la Serie B.

Qui su Le Rane, parlammo già dei Materazi Future Club lo scorso anno, raccontando il loro album d’esordio, Formazione titolare. Scrivemmo che il disco richiamava a livello melodico il rock inglese, e che era mosso dall’intento di ritrovare lo spirito autentico di uno sport snaturato, succube delle dure leggi del business molto più che del gol.

L’analisi, lucida e puntuale, è applicabile anche a Punkinari.

Panchina
Materazi Future Club – Punkinari [Ascolta qui]

Il sound è sempre un indie rock di reminiscenze british, con linee di basso dub e ska, qualche base che sfiora l’industrial ma più in chiave anni ’80, e qualche tempo in levare che nella musica di oggi è raro e per questo molto apprezzato.

Le tre storie raccontate nei pezzi sono, se vogliamo ancor più di quelle di Formazione titolare, un’ode a quello che un trend di X di questi giorni definisce CALCIO (in maiuscolo). Vale a dire, sono storie che raccontano l’anima romantica, sincera, umana di questo sport. Uno sport fatto di lacrime, sudore, attese, pronostici spesso contro. Uno sport che vive grazie alla comunità di tifosi che si crea tutto intorno, che espia gli ostacoli dell’esistere in una catarsi collettiva nel qui e ora.

Come il titolo dell’EP fa presagire, protagonista delle tre canzoni è la panchina.

Più di tutte, riveste un ruolo fondamentale nel primo pezzo, la quasi-title track Panchinari. Fino all’età di 15 anni, ho giocato a calcio in una squadra locale. Posso ammettere con grande serenità che ero molto scarso, e proprio per questo, entro i limiti etici dovuti al fatto che ero comunque un ragazzino, sono stato schierato molto spesso in panchina. Un luogo liminale, al confine tra il tutto e il niente. Un angolo dove guardare compagni e avversari che combattono, sapendo che tutti gli occhi sono per loro, e nessuno per te. Un posto che col tempo diventa grigio, sbiadito, in cui il tempo non passa mai.

La panchina è spietata: ti dà pochissime opportunità, e ti impone di sfruttarle al primo colpo. Non entrerai in campo sempre, ma quando lo farai, se giocherai bene, se farai gol, varrà doppio e forse la tua condizione muterà. Se non accadrà, ci sarà tanta altra panchina ad aspettarti.

Tutto questo è raccontato, su una base post-punk con un po’ di ska, nel pezzo.

In pieno stile Materazi Future Club, la parola è affidata agli stralci delle interviste e delle frasi iconiche della storia del calcio. L’hook del pezzo, che martella sopra il basso, è la registrazione originale di una celebre frase di Gattuso. Durante un Napoli-Lazio di qualche anno fa, si infuriò con Simone Inzaghi, e lo minacciò di attaccarlo alla panchina porcoddiaz. C’è spazio poi per le parole di Totti, quando durante l’ultimo anno alla Roma non celava il proprio malessere nel ruolo da comparsa che gli aveva rifilato Spalletti. Sto male io, sta male la gente che mi sta intorno è una frase che anche chi non tifa la Roma non si è scordato. E ci sono poi le urla di Caressa e degli altri telecronisti per celebrare i gol di Cruz, che da vero cecchino, segnava sempre quando entrava dalla panchina.

Materazi Future Club – Dio perdona Rignò [Ascolta qui]

Il secondo brano, Dio perdona Riganò, si discosta dagli altri dal punto di vista melodico.

Il racconto della storia di Cristian Riganò, muratore, poi bomber della Fiorentina, poi muratore di nuovo, avviene su una produzione più punk e più dance del solito. La narrazione spetta a Federico Russo, e procede per elenchi. Prima gli oggetti della quotidianità dei muratori. Poi la lista delle prodezze sportive messe a segno da Riganò. Poi, ancora, vengono citate in ordine le squadre in cui l’attaccante giocò, varcando addirittura i confini nazionali, finendo al Levante.

Questo è calcestruzzo, non è calcio, stronzo / questo è calcio, stronzo, non è calcestruzzo è l’hook che si intermezza agli elenchi. La storia di un giocatore del popolo, lontano dal jet set, dalla fama. Prese la Fiorentina nel tragico momento in cui divenne Florentia Viola e retrocesse in C2, e la riportò in Serie A a suon di gol. Senza mai tradire le sue origini, e con l’umiltà di sempre. Sono abbastanza certo che Dio lo possa perdonare.

Il momento in cui ho sentito l’urgenza di dover scrivere questo pezzo, però, è stato quando ho ascoltato il terzo brano, Igor Simutenkov. Ed è qui che entra in gioco la Serie B.

Guardare la Serie B è l’equivalente calcistico di quando dici che no, non puoi proprio andare a sentire i Coldplay, c’è quella band norvegese che ti dicevo che viene a suonare a due ore da casa, quando mi ricapita. Non so se sia per il tempo trascorso in panchina, perché la mia squadra del cuore ci ha militato per anni, o per il fatto che l’indie è sfuggito di mano a noi che ci avviciniamo alla fine dei vent’anni. Fatto sta che trovo che la Serie B sia il campionato più romantico del mondo. Un campionato fatto di fiati sospesi e lacrime – il Bari che perde la promozione in Serie A al 94’ della finale dei playoff davanti al suo pubblico.

Un torneo con un regolamento assurdo, dove tutto è possibile e dove chiunque può all’improvviso retrocedere nelle deliranti sabbie mobili della Serie C. La terra di personaggi che entro i confini della Serie B sono dei monarchi, ma al di fuori sono condannati all’anonimato – Stefan Schwoch detiene il record del maggior numero di reti segnate nella storia del campionato, ma in Serie A ha giocato solo 14 partite. Insomma, un meta-spazio.

Igor Simutenkov racconta la storia di un calciatore sovietico che giocò nella Reggiana. La voce narrante è di Max Collini, che già aveva collaborato con i Materazi Future Club in Luciano/Eriberto. Il talento da cantastorie di Collini è rimasto intatto dai tempi in cui, con gli Offlaga Disco Pax, denunciava la scomparsa del Cinnamon o citava gli indimenticabili striscioni degli ultras della Reggiana (grazie Reagan, bombardaci Parma – esposto dopo il raid su Tripoli, e per il quale gli Offlaga Disco Pax non poterono esibirsi a Parma per anni).

Igor Simutenkov

La storia di Igor Simutenkov è, a tutti gli effetti, anonima: non fece niente che fu degno di nota.

Mazzone, che lo allenava, non ricordava il suo nome. Una volta conquistò un rigore. Giocò qualche partita in Serie A, ma la Reggiana retrocesse. Passò al Bologna, ma non era titolare. Finì la carriera nella triste seconda divisione russa. Divenne traduttore di Spalletti quando allenò lo Zenit San Pietroburgo. Ma ecco che, sul finire, il colpo di scena, la rivincita.

Durante un Reggiana – Milan di Coppa Italia, Igor Simutenkov fece tunnel a Baresi, e segnò. Una cosa che in provincia non si è vista quasi mai. Il calcio, la Serie B, è anche questo. Un insieme di storie senza fuochi d’artificio. Che quando uno le ascolta si aspetta la svolta, il momento che ripaga l’attesa, ma non arriva mai.

Nell’era dei discorsi sulla Superlega, dei Mondiali in Qatar nel bel mezzo dei campionati, della rivoluzione del format Champions League, c’è bisogno di trovare qualche appiglio per innamorarsi di nuovo del calcio. C’è bisogno di rimettere l’accento sul romanticismo di questo sport, sulla componente umana, sulle storie. Quelle dei tifosi, uniti in un laico rituale. E quelle dei calciatori, dalle leggende fino ai lavoratori delle squadre di provincia. Per fortuna che ci sono i Materazi Future Club. Che non solo lo fanno, ma ci mettono dentro pure il post-punk e l’indie rock inglese. Che comunque, non è mai una cattiva idea.

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