Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” e l’importanza di non temere più il dolore

Atmosfere dal contesto anni Ottanta. Ma anche dolori ed amori antichi quanto il mondo. E lo zampino di Francesco Bianconi, ad armonizzare memorie altrettanto ancestrali. Perché l’ultimo album di Amalfitano, – “Tienimi la mano, Diva!”, uscito lo scorso 22 marzo – è un crogiuolo modernissimo di sensazioni prettamente umane, per ascoltare il quale occorre partire da una considerazione intuitiva ma spesso dimenticata.

L’udito è l’unico senso che non si può escludere.

Per togliere un gusto basta infatti sciacquarsi la bocca, mentre per zittire lo sguardo è sufficiente chiudere gli occhi. Allo stesso modo, un odore passa in fretta se ci turiamo bene il naso e per non esperire il tatto basta non toccare nulla. L’udito, invece, c’è sempre: è pervasivo e non dipende da noi. Di fronte all’udito, alla musica, non ci resta allora che invocare la divinità, una qualsiasi, affinché protegga i nostri ascolti e dia forza alle nostre voci.

«Per l’antichità classica, – spiega Amalfitano, che abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del disco – quel “cantami, Diva!” all’inizio dei poemi epici era una sorta di “fammi cantare”, “dammi la forza per farlo”, “sorreggimi”. Questo mio album è un’invocazione a qualcosa di analogo: alla capacità di sorreggere e sorreggersi, all’affidarsi, al non avere paura di soffrire, perché spesso non dipende da noi e senza dolore non solo saremo meno vivi ma anche meno comunicativi. Saremo tutti un po’ meno musica».

Amalfitano
Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” [Ascolta qui]
E a proposito di musica, partirei proprio dalla tua. Il primo album solista, pubblicato come Amalfitano dopo l’esperienza con i Joe Victor, risale a quasi cinque anni fa: cos’è cambiato da allora?

«Il primo disco in verità era uscito a pezzi fra il 2019 e il 2022, con brani pubblicati in quello che mi piace definire una sorta di “stillicidio”. Fra il 2021 e il 2022, quando ancora il covid stava assorbendo le nostre vite, è nata l’esigenza di ricucire un po’ i tasselli e ho voluto raccontare le cose che vedevo attorno a me, condendole con emozioni realmente vissute o immaginate. Il che si è tradotto anche in nuove sonorità: ho ricercato il genere che mi appartenesse e rappresentasse di più, virando decisamente sul rock».

Anche se dare un genere a questo tuo lavoro è veramente complesso. C’è il rock, senz’altro, ma pure sensibilità cantautorali e ritmi dance. Mi chiedo quale pot-pourri di influenze ti abbiano ispirato.

«È una domanda che si pongono e mi pongono in tanti, ma alla quale non so mai che cosa rispondere, perché la musica che mi piace è davvero moltissima: americana, disco music, prog. Ma poi anche il folk del mio più grande mito, Bob Dylan. Un Bob Dylan che è davvero imperante nella mia vita ma che in realtà non c’entra niente con il disco che ho fatto»

Un altro dei tuoi miti, che invece con l’album c’entra moltissimo, è Francesco Bianconi.

«Esatto. Francesco ha prodotto tutto il disco»

Cantandovi anche.

«Ma inizialmente non era previsto. Un giorno ci trovavamo in studio e gli ho chiesto se poteva cantarci “Fosforo”. Ma così, in una performance slegata dalla registrazione e che doveva restare fra noi. Lui l’ha fatto, insistendo poi per cantare quel brano anche nel disco, insieme ad un’altra canzone, “Tenerezza”. La sua collaborazione nel realizzare questo album, per me che sono un suo grande fan, è stata un onore immenso. Ci siamo trovati molto bene non solo artisticamente e professionalmente, ma anche dal punto di vista umano, come mentalità. Lo ammiro e lo stimo»

Amalfitano
Amalfitano (foto di Cristiano Pedrocco)
Da Francesco Bianconi a “Francesca Bianchi” il passo è breve. Ma chi è costei?

«In realtà nessuno. Il brano è sostanzialmente il racconto di un’orgia, in cui a confondersi e mischiarsi sono proprio le identità e le pulsioni di ognuno. Va a finire che io divento donna e tu uomo, senza che vi sia nulla di male o di proibito. È stata la prima canzone che ho scritto per il disco, quella da cui si sono dipanate tutte le altre»

L’ultima qual è stata invece?

«”Quanto dolore ci servirà per smettere di amare?“»

E quanto ce ne servirà?

«Lo canto nel pezzo: “Porca misera, non c’è un fondo mai”. Ma alla fine penso che si tratti di una domanda destinata a restare senza risposta. Finché siamo imprigionati dentro questo sortilegio chiamato vita, credo che il dolore non finirà mai. Poi io sono un grande critico di tutto quel mondo che ragiona sull’amore, cercando il modo giusto di provarlo, la situazione giusta da cui lasciarsi conquistare, insistendo sulla necessità di un sano egoismo.

Ma che cos’è in fondo il sano egoismo? Non c’è niente di veramente sano nell’essere egoisti. E non c’è niente di meno egoista dell’amore. Perché, quando arriva, anzitutto non ti chiede il permesso e poi ti catapulta in situazioni che non riesci a spiegare e dalle quali non riuscirà mai a proteggerti. Il tentativo di protezione che siamo abituati a mettere in atto con i nostri ragionamenti sull’amore e sul dolore è lontano dalla vita. E ci allontana a sua volta da essa e dalla sua meraviglia tanto spaventosa e disarmante»

Wow.

«Grazie [Amalfitano ride]»

L’album si conclude con “Faccia di caffè” e il modo in cui fischietti nel finale sembra quasi esorcizzare il dolore di cui abbiamo parlato. È così?

«Beh, sì. La musica riesce a farlo. Talvolta deve farlo. La musica è capace di raccogliere in sé altissimi picchi e pozzi profondissimi. Di quella canzone in particolare, mi piace molto, a tal proposito, l’abbraccio che canto, definendolo “forte come il pavimento”»

E qui forse si torna all’inizio. Come se la Terra e il pavimento, quando cadi, quando collassi, quando proprio non ce la fai più, siano sempre là. Ad abbracciarti, a sorreggerti, a…

«…a tenerti per mano, sì».

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