Motta ci racconta di come, in senso lato, la musica è tutt’altro che finita

La musica è finita è il quarto album in studio di Motta. Se nel disco si incontrano alcuni tra i tratti più caratteristici dell’artista toscano, come il rassicurante timbro vocale e la meticolosità negli arrangiamenti, c’è spazio soprattutto per diverse novità. La musica elettronica si è ritagliata uno spazio da protagonista all’interno delle produzioni; i featuring sono ben quattro (due erano stati, in totale, nella discografia antecedente); per raccontare alcune storie, il cantautore ha scelto di ricorrere a inedite tecniche narrative.

Ne abbiamo chiacchierato insieme in un soleggiato pomeriggio di Novembre.

La musica è finita è il tuo nuovo disco. Certo, tra l’album, il tour appena partito, la colonna sonora de La terra dei figli, la musica in senso lato non è certo finita. Però, come si evince anche dalla stessa title track (le note son finite e la voglia l’ho venduta / la fine di quest’altra vita è appena cominciata), qualche musica è finita e qualche altra è iniziata. Quale?

Sì, oltre a La Terra dei figli, ci sono altre due colonne sonore in uscita, una delle quali è stata presentata a Roma. Quindi sì, come dicevi, ce n’è parecchia di musica – anzi, questo è il periodo dove ho fatto più musica in assoluto.

La musica è finita è un modo drastico per arrivare a una sintesi di concetti. È un modo per girare pagina, per ripartire non ti dico da zero, ma da un altro punto di vista. E questo sentore di novità, per come sono fatto io, doveva passare dalla fine di qualcosa. Ci sono altri punti di vista, dicevo, in questo disco, come ad esempio un approccio alla musica elettronica.

Ecco, a proposito: all’interno del disco, strumenti come chitarra, pianoforte, batteria, si fondono con l’elettronica, come avevi iniziato a fare in Quando guardiamo una rosa. Come nasce questa virata verso l’elettronica, che non abbandona la musica suonata?

Per parlare a pieno di musica elettronica ci vorrebbero sei mesi più che un’intervista! Ci tengo a sottolineare che la musica elettronica è musica suonata, dipende da come la si fa. Io ci ho fatto pace dopo anni in cui dividevo mentalmente e praticamente la musica elettronica da quella non elettronica. È stato per me un faticoso punto d’arrivo: quando avevo diciott’anni, in un negozio di musica, o acquistavi una chitarra o acquistavi un synth – oggi una cosa non esclude l’altra. Finalmente ci ho fatto pace, e ho adottato con l’elettronica lo stesso spirito libero che ho con gli strumenti.

Alla fine, l’approccio è lo stesso: armonicamente, l’utilizzo di elementi elettronici riporta a canzoni che sono riconducibili a me. Poi, certo, tante cose che vengono percepite come musica elettronica nell’album sono suonate da Mauro Refosco, percussionista bravissimo che ha collaborato con me in tre dischi, anche in Quando guardiamo una rosa… comunque sì, se ne potrebbe parlare per ore!

Motta – La musica è finita [Ascolta qui]
Il disco si apre con Anime perse, un pezzo che mi ricorda da vicino Anna e Marco. Quando scrivi canzoni, di solito, racconti storie in prima persona. Come nasce l’idea di iniziare l’album narrando la storia dei due protagonisti in terza persona, un escamotage molto cantautorale nel tuo disco meno cantautorale?

Hai trovato la canzone giusta! Ne avevo parlato proprio con il produttore di Lucio Dalla qualche anno fa. Di solito, mi piace creare una dinamicità di personaggi nei testi, per sfuggire all’autoreferenzialità del cantautore. Il fatto di spostare lo sguardo su altri due personaggi è un respiro testuale, ma questo non significa che se parlo di lui e lei non parlo di me.

È stato per me un modo di innovare la scrittura, di non ripetermi. Io vivo del raggiungimento di cose che non ho fatto, perché le cose che ho fatto, le conosco troppo bene. Quindi, ben vengano questi giochi testuali e musicali nuovi.

Ultima domanda sui testi! In Per non pensarci più, canti fanculo questa musica che cerca una ragione per un dolore in più / l’ho fatto troppe volte e non è servito a niente. È finita anche la musica che cerca di esorcizzare le cose tristi della vita, ma finisce col farti stare peggio?

Magari fosse finito quel periodo! Penso che ne valga sempre la pena, di provare a esorcizzare le cose, e quando lo faccio, di solito, è per cercare di stare meglio. Quando ho scritto il pezzo, volevo provare a essere chi non ero, a cercare la leggerezza del “ma chi me lo fa fare”. Ma io lo so chi me lo fa fare… se non facessi così, sarebbe un problema, almeno per me!

In questo momento, la linea telefonica ha iniziato a cedere, e la seconda metà dell’intervista è stata condotta sporgendomi fuori dalla finestra… Motta l’ha rinominata “l’intervista aggrappata a un ponte”, e credo sia un bellissimo modo di descriverla.

Nel disco c’è molto spazio per i duetti. Quello che trovo notevole è come gli ospiti facciano sempre quello che ti aspetti da loro (Giovanni Truppi fa il deus ex machina didascalico; di Ginevra si conserva il sound da soft-clubber…), ma in pezzi che sono indubbiamente tuoi. Come è stato possibile prendere identità artistiche molto definite, e portarle ad arricchire il disco senza mai snaturarsi?

Guarda, hai citato Ginevra: è vero, ha lo spirito clubbing che dici tu e che emerge nei suoi dischi, ma ha anche tante altre qualità che sto scoprendo pian piano, continuando a scrivere con lei. Una delle penne migliori che ci siano in Italia! Tornando alla domanda: l’idea era quella di trovarsi in studio, e vedere cosa veniva fuori. È come in una relazione: quando due persone si vogliono bene, sanno lasciarsi spazio con estremo rispetto, e riescono sempre a essere se stessi.

Le canzoni, poi, sono una cosa terza che nasce da questo incontro. È la stessa cosa che è successa quando ho fatto il tour con le ragazze del Niger (Les Filles de Illighidad, che accompagnarono Motta in tour nel 2018, ndr): non abbiamo suonato musica touareg, ma abbiamo creato qualcosa di nuovo insieme. Sai, da piccolo mi annoiavo durante le jam session, quasi nemmeno le sapevo fare: queste canzoni non sono jam session, sono incontri importanti che hanno dato vita a pezzi a cui tengo tantissimo.

La musica è finita
Tra questi, c’è Alice, il duetto con Giovanni Truppi dedicato a tua sorella. Se ne è scritto molto in questi giorni, hai anche raccontato dello scambio di email tra tua mamma e Truppi… io invece volevo chiederti come ha reagito Alice, la prima volta che ha sentito il brano.

Bene, direi… (ride, ndr – e come poteva reagire diversamente, ribatto io). Alice è un pezzo in cui mi sono messo a nudo come in pochi altri. L’altro giorno a Livorno, alla prima data del tour, mia sorella era tra il pubblico. Farle ascoltare il pezzo, suonarlo dal vivo davanti a lei, mi faceva paura. È stato emotivamente intenso.

Seguendo l’ordine del disco, arriva Se non avessi avuto te, brano in cui per la prima volta suoni il pianoforte, che porterai anche in tour…

È sempre parte di quel processo di accettazione e liberazione di cui parlavamo prima, a proposito della musica elettronica. Con Giovanni Truppi, con Nada, suonavo la tastiera dal vivo; da solo però non l’ho mai fatto, forse perché l’ho sempre reputato lo strumento più bello, e quindi quello più difficile. Il pianoforte è lo strumento con cui ho iniziato. Suonarlo ai concerti mi sta divertendo moltissimo, sto ritrovando una zona di comfort per la mia voce, che nessun altro strumento mi dà.

E a proposito di tour, è partito proprio il giorno di uscita dell’album: non vedevi l’ora di suonare i brani dal vivo, o volevi scappare dai rituali della promozione?

Più che i rituali della promozione, a volte mi capita che, dopo una settimana dall’uscita, riesco a capire quali pezzi piacciono di più alle persone. Io volevo fare tabula rasa, non pensarci: iniziare subito il tour era un modo rischiare, cosa che credo sia fondamentale in questo mestiere. E poi, avevo molta voglia di spiegare il disco, e le cose si spiegano dal vivo.

E qual è secondo te, tra i pezzi nuovi, quello che ai concerti viene amato di più?

Ancora non te lo so dire! Però per la prima volta in questo disco c’è un allineamento tra i miei pezzi preferiti e quelli che mi sembrano piacciano di più al pubblico… di solito non succede mai!

La Musica è Finita è il tuo quarto disco in italiano, che viene dopo l’esperienza con i Criminal Jokers, con cui suonavi in inglese. In questo album, in brani come Alice o Quello che ancora non c’è, hai raccontato parti di te molto personali. Il coraggio di farlo in italiano, ora e nel futuro, è conquistato? O è, e sarà, ancora una lotta contro l’imbarazzo linguistico?

No, forse avrei imbarazzo a dire certe cose non nella mia lingua. Fortunatamente però, c’è ancora l’imbarazzo di dire certe cose in maniera nuda e cruda. Ed è uno dei motivi per cui continuo a fare questo mestiere.

A fine intervista, Motta mi chiede scusa se mi ha fatto prendere freddo alla finestra. Per fortuna, era un pomeriggio di sole. Che poi, alla fine, una bella chiacchierata val bene un po’ di freddo.

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