“Quando ero piccolo, a casa di mia nonna giocavo spesso con alcuni soldatini di plastica che riproducevano indiani e cowboys. Cresciuto con i film di Sergio Leone fin dall’età di 3 anni, avevo una passione per quegli sporchi eroi di frontiera, amavo quei cappelli sgualciti, il suono metallico degli stivali, la freddezza degli sguardi. Così nelle simulazioni di guerra tra i tavolini e il divano del salotto finivano sempre per vincere i cowboys. D’altra parte loro avevano i fucili e le pistole, gli indiani solo archi e qualche ascia, come poteva essere diversamente?
Ho ascoltato Faber da sempre, ma il primo incontro di cui ho memoria è stato con Fiume Sand Creek, nella macchina del padre di un mio amichetto delle elementari, avrò avuto 6 o 7 anni. Rimasi completamente rapito da ogni elemento della canzone: dalla musica, dai suoni di caccia, dalle parole. Tornato a casa chiesi a mio padre di farmela sentire di nuovo e la ascoltai per una dozzina di volte continuamente, senza fermarmi. Appena finiva, la riascoltavo di nuovo, ogni volta più concentrato. Dovevo capire e non ci riuscivo.
Non è che non capissi la storia, mi era chiara, ma per la prima volta non parlavano i cowboys o i soldati bianchi, ma gli indiani. E i cowboys erano indubbiamente i cattivi, autori di uno massacro crudele e assurdo. Quella canzone mi aveva capovolto il punto di vista e continuavo ad ascoltarla per capire che cosa fosse successo dentro di me. Alla fine, esausto, mi fermai, spensi il giradischi e decisi che la volta successiva sarebbero stati gli indiani a vincere la guerra”.
Cos’è Faber per noi, oggi? Cosa rappresenta per noi della Generazione Zero?
Com’è possibile che molti di noi sentano un legame così stretto, quasi viscerale, con tutto ciò che c’ha lasciato? E non parlo solo delle canzoni. Certo, il repertorio musicale rimane il canale di connessione tra lui e noi privilegiato, talvolta anche un po’ abusato: quante volte siamo rimasti delusi da qualche tentativo commemorativo/celebrativo, magari partito con le migliori intenzioni possibili ma alla fine mal riuscito? Personalmente tante. Atti profanatori oserei dire. Speculazioni attorno alla sua persona. Ma si sa, è il destino a cui vanno inesorabilmente incontro “i grandi” una volta morti.
Morto. Ecco mi chiedo cos’altro avrebbe potuto fare De Andrè se fosse stato ancora qui. Se n’è andato presto, per me che quell’ 11 gennaio 1999 di anni ne avevo quattro. Ma se n’è andato presto anche per quelli che di possibilità di ascoltarlo dal vivo ne hanno avute e anche tante, alcune sfruttate, altre no. Non troppo tempo fa chiesi a mio padre se da giovane fosse mai capitato a qualche suo concerto. Così, per caso. All’inizio non si ricordava, ma poi capì che il motivo della sua dimenticanza era dovuto al fatto che ad una festa de l’Unità di inizio anni Ottanta, nel basso veronese, ci fosse andato sì, ma da ubriaco. Ed io allora bonariamente ad insultarlo quasi a dirgli “come hai fatto a non prestargli attenzione, tu che potevi?!?”.
Se invece chiedo a mia madre, lei mi risponde che il personaggio De Andrè le ispirava una certa antipatia. Sinceramente, stando alle mie svariate documentazioni, non stento a crederci, ma ritengo anche che quella con cui noi, che siamo al di qua della linea, abbiamo a che fare, sia solamente un’immagine, l’immagine pubblica.
Chi siamo per dire quale fosse il vero Faber?
Un po’ come l’essenza irraggiungibile, il ti esti socratico a cui non si potrà mai pervenire. Continuiamo a provarci e continueremo a farlo, il bello è anche quello. Ma sappiamo che in fondo ognuno di noi si costruirà l’idea del proprio, personale Faber. E questo in realtà vale anche per chi è stato e sta ancora al di là della stessa linea, per chi l’ha conosciuto veramente. Ho letto di un Mauro Pagani a cui di De Andrè manca la testa ma anche il cuore, di un De Gregori che, una volta diventatogli amico, non ha mai trovato scollature “fra l’uomo e lo scrittore di quelle canzoni”, di un Massimo Bubola che ancora pensa a quelle “parole che andavano oltre la fine” sussurrategli da De Andrè all’orecchio. Ancora le sente.
Non nego di aver a volte desiderato di trovarmi dall’altra parte della linea. Lì. Anch’io. Ma poi mi tornava in mente una cosa che Faber aveva detto a proposito di George Brassens: “Non ho mai voluto incontrarlo personalmente, per mia debolezza. Era un mito e avevo paura che diventasse una persona. Se fosse crollato, mi sarebbe crollato il mondo. Volevo che restasse mito”. Ecco, se noi della Generazione Z continueremo a vedere De Andrè come un mito, un mito difficilmente scalfibile, allora forse vorrà dire che anche il nostro piccolo mondo non potrà mai crollare. O almeno, è confortante crederci.
E assieme alle sue canzoni-poesie rimarranno per sempre anche “l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste”, l’orgoglio e la libertà di riconoscersi come servi disobbedienti alle leggi del branco, la diagnosi della “malattia di borghese” e “la dimostrazione di quanto possa essere disagevole il mestiere di vivere” soprattutto per chi, come lui, viaggia in direzione ostinata e contraria, come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere.
Rimane anche un 33 giri originale del tour 1978 De Andrè-Premiata Forneria Marconi, volume 1.
Grazie papà.
E grazie Faber.
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