Umberto Bindi e il canto della cicala

«Io lo chiamavo Wagner. Umberto è prima di tutto uno dei più grandi melodisti che abbia mai conosciuto. È tutt’uno con lo strumento, questo è certo. Quando è seduto davanti al piano si entusiasma. Umberto è un musicista puro»[1]. Basterebbero queste parole di Enzo Jannacci a inquadrare la cifra stilistica di Umberto Bindi (1932-2002).

Originario di Bogliasco, oggi città metropolitana di Genova, fu trai fondatori della cosiddetta “scuola genovese”.

Studiò pianoforte in Conservatorio; l’incontro che gli cambiò la vita fu con il suo concittadino e paroliere Giorgio Calabrese. Assieme scrissero alcune delle canzoni più belle nella storia della musica leggera italiana: Amare te, Arrivederci (reinterpretata in tutto il mondo, da Mina a Chet Baker), Chiedimi l’impossibile (incisa anche con Antonella Ruggiero), Il confine, Il nostro concerto (con un’immensa introduzione strumentale di oltre settanta secondi), Invece no, Lasciatemi sognare, Non so, Nuvola per due, Odio, Se ci sei, Vento di mare, Un giorno, un mese, un anno.

Dopo aver partecipato con successo a Canzonissima, sbarcò come esordiente al Festival di Sanremo del 1961 con Non mi dire chi sei. Durante l’esibizione indossò un brillante vistoso, pretesto che fece scatenare stampa e opinione pubblica contro la sua omosessualità. La bufera fu talmente amplificata da compromettergli, o quasi, l’intera carriera, appena cominciata.

Più tardi dichiarò: «Le parole erano di Calabrese e mi furono date all’ultimo momento tanto che dovetti leggere delle frasi sulla mano, in quella mano fatidica dove c’era il brillante. Sembrava che facessi vedere quel brillante apposta»[2]. E ancora: «Parlavano solo del mio anello al dito mignolo e, dunque, solo pettegolezzi e malignità, cattiverie e infamie. […] Della mia canzone non fregava niente a nessuno. Volevano solo sapere se ero finocchio».

Umberto Bindi
Bindi non si lasciò abbattere e, pochi anni dopo, incise un quarantacinque giri.

Conteneva su di un lato Il mio mondo, apprezzatissimo successo firmato assieme all’amico Paoli, e sull’altro Vieni, andiamo, dolcissima poesia scritta da Sergio Bardotti. Bindi si avvalse anche della collaborazione di altri parolieri come Alberto Testa (Riviera, Basta una volta), l’amico Lauzi (Io e il mare), Nisa (È vero). Con Franco Califano firmerà La musica è finita, capolavoro cantato, tra gli altri, dalla voce unica di Ornella Vanoni.

Bisogna ricordare che le canzoni di Bindi sono presenti in film di celebri registi quali Bolognini, Fulci, Risi, Visconti, Zurlini, sino ad esempi più recenti come nella scena finale del film Dobbiamo parlare (Rubini, 2015). Appassionato di cinema, Umberto fece anche brevi comparse in alcune pellicole: Urlatori alla sbarra (Fulci, 1960), Rocco e le sorelle (Simonelli, 1961), Peccati d’estate (Bianchi, 1962).

Il suo periodo d’oro, quello che tutti ricordano, furono gli anni Sessanta.

Dalla metà dei Settanta, con l’avvento dei cantautori e del progressive rock, lo stile di Bindi si andò pian piano perdendo e, un po’ per scelte personali un po’ a causa dei cambiamenti dei gusti della società, fu dimenticato. Nonostante questo, si ricordano due esibizioni in particolare di quel periodo: “Quei due allegroni di Genova” del 1976 per la Rai, con Gino Paoli, e il concertone del 9 maggio 1978 al Teatro Sistina di Roma assieme a Paoli, Endrigo e Lauzi.

Nel 1988 Umberto Bindi trovò il coraggio, durante il “Maurizio Costanzo Show”, di dichiarare pubblicamente sul grande schermo la propria omosessualità, denunciando la sua lunga condizione di emarginato; non lo fece come gesto di elemosina e con la faccia da cane bastonato, ma soltanto con la consueta raffinatezza interiore ed esistenziale che lo contraddistingueva. Inoltre, fu proprio da Costanzo che nel 1993 presentò, assieme all’amico Bruno Martino, lo spettacolo “Due vite e un pianoforte”, un concerto con venti repliche al Teatro Flaiano di Roma.

Dopo un lungo periodo di silenzio discografico, Bindi tornò al Festival di Sanremo nel 1996 con i New Trolls cantando Letti

La canzone era contenuta nel disco “Di coraggio non si muore”, prodotto da Renato Zero, il quale scrisse e incise L’approdo, un testo dedicato proprio al suo amico Umberto: «Se avesse perso quel piroscafo lui non sarebbe mai arrivato fino a noi e non avremmo conosciuto la ricchezza della sua espressività, quella tenera indecisione, forza e fragilità insieme. Involontari candore di stuzzicare un pianoforte per fargli dire cose mai pensate, mai osate, mai scritte. E così nel mare della musica lui non si sentirà più… il naufrago».

Il 2002 fu un anno critico per le condizioni di salute di Bindi

Fu vano il tentativo di chiedere la concessione dei benefici della legge Bacchelli a sostegno degli artisti poiché morì poco dopo. Durante il Festival di Sanremo del 2014 Paoli lo ha ricordato come “un uomo gentile, buono e un grande artista”, “massacrato, deriso, umiliato e poi dimenticato”.

Dopo aver ascoltato tutti i suoi grandi successi, è consigliato soffermarsi su un album in particolare: “Con il passare del tempo” (1973). Specialmente la canzone Due come noi, dolce fotografia: «E io, con tutto quel che so, accanto a te sorriderò, come se il mondo non stesse aspettando che due proprio come noi».

Umberto Bindi era un’anima fragile, umile, sensibile; il timbro della sua voce era caldo, amabile, delicato e penetrante. A distanza di quasi vent’anni dalla sua scomparsa, le sue melodie necessitano di una riscoperta, soprattutto da parte dei giovani cantautori e non, affinché il suo modo di comporre, di cantare, di orchestrare, possa essere di insegnamento e di ispirazione.

Poco prima di morire, durante un’intervista, disse: «Io sono solo un cantante, autore abbastanza famoso, che è rimasto senza soldi e senza salute. Senza soldi sicuramente per colpa mia. Perché sono una cicala, non una formica»[3]. Eugenio Montale, forse il più grande poeta italiano del Novecento, anch’egli genovese, scrisse: “Forse l’estate ha finito di vivere. / Si sono fatte rare anche le cicale.”

[1] Aa.Vv. (a cura di E. Bassignano e M. Ranaldi), Umberto Bindi: è stato solo un arrivederci, Pieraldo Editore, Roma, 1996.
[2] Cantar di tempi oscuri, Rai, 1978
[3] Corriere della Sera, 10 aprile 2002.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *