“Dall’altra parte del mondo” di Gregorio Sanchez e l’artigianalità della musica

Sto disegnando l’immagine di un bambino che ride giocando con quel poco che ha, di fronte gli occhi di un adulto appena adulto già stanco di esserlo. Prendo un foglio di carta, faccio una barchetta e ci metto un po’ di emozioni da portare dall’altra parte del mondo.

No, scusate, devo ribaltare totalmente i piani e fare retro front. Ho deciso: non parto. Non voglio andare da nessuna parte né con l’immaginazione, né con una barchetta di carta. Sento improvvisamente l’esigenza di dovermi fermare prima di partire. Credo che io sia qui per godermi il viaggio di qualcun altro, non il mio. Mi sono appena imbattuta in quel tipo di album che non vuole portarci dall’altra parte del mondo e che forse neanche ci vuole come spettatori. Perché pubblicarlo allora? Direste voi. E lo direi anche io se non fosse che finalmente qualcuno ha smesso di rubare le storie dei molti solo per riempire un disco. Qualcuno qui è riuscito a scrivere dieci canzoni di piccole storie quotidiane senza dover per forza farci sentire i protagonisti.

Si dia il caso che questo qualcuno è Gregorio Sanchez, che di cognome però non fa Sanchez. E che comunque suona proprio come uno che si deve chiamare Gregorio Sanchez, che va dall’altra parte del mondo a scrivere una canzone che chiama Dall’altra parte del mondo. Si rende conto che è la sua prima canzone scritta in italiano, nonostante sia da trent’anni un bolognese nato e vissuto. Realizza che ha scritto fino ad ora in inglese come coloro “che non danno molto peso alle parole” e che la nostra lingua è propria di quelli che fanno caso alle parole, se solo lo volessero tutti.

Gregorio Sanchez – Dall’altra parte del mondo [Ascolta qui]

Do it yourself

Parliamo di un prodotto Garrincha Dischi, che Sanchez stesso definisce a tratti anti-discografico, fatto seguendo un po’ se stesso. E questo fa onore sia all’etichetta discografica, sia all’autore se il risultato poi permea così di artigianalità. Ci sono sound un po’ sparsi di qua e di là, a volte si fa quasi fatica a collegarli. Un attimo hanno il sapore di fiaba, l’attimo dopo sanno dell’indie italiano di cinque o sei anni fa. Sono sound indipendenti che vanno dove gli pare, e che escono quando gli pare. Li prendi per buoni, come vasi di ceramica che ti piacciono proprio perché hanno quell’imperfezione del lavoro fatto a mano.

Sa solo scrivere canzoni tristi

So solo scrivere canzoni tristi /
Ma in generale tendo ad essere felice con la gente

Non mi pare sia esattamente così.
L’album è molto dolce, e piacevole è il suono che gli fa da base. Non ho mai avuto l’impressione di ascoltare un brano di quest’opera che sia infelice, sarà perché il cantautorato italiano in voga mi ha abituata a chili di (finta) depressione. Ma come dicevo all’inizio, siamo qui come spettatori forse neanche così desiderati di una storia che non ci riguarda, e se Sanchez dice che sa solo scrivere canzoni tristi, perché controbatterlo? Al massimo posso dirgli che non è così che risulta, e che, per quanto lo reputi meno mainstream di alcuni suoi colleghi, “so solo scrivere canzoni tristi” è un inizio del brano portante che lo indirizza vuoi o non vuoi verso quel genere di musica lì. Proprio quello lì. Ho detto Gazzelle? Chi ha detto Gazzelle?

La fantasia

A partire dal primo brano del disco, Dopo Marte, dove l’utilizzo così sfrenato e pacato al contempo della fantasia mi ha stretto in una smorfia di dolcezza. L’ho sentita tra la mani “l’astronave fatta di parole e pillole, ch’è scassata più di te, fatta di parole e pillole così sarà più facile schiantarsi tra le nuvole di un pianeta senza mare dove non si può parlare”. La sento delicata, che fragile può spiegarsi tra i miei palmi e rovinargli il viaggio. Come quello sulle Macchine volanti, dove mi ha ricordato che proprio come per la protagonista della sua storia, la mia mano sinistra si annoia da morire quando scrivo per ore. Ti stai sentendo in colpa anche tu per aver trascurato la tua mano sinistra mentre l’altra lavorava, vero?

I top 2

Ma la fantasia non si ferma, anzi corre attraverso Pesce lesso in cui dipinge immagini quasi violente e divertenti. In cui resta tonto come un pesce lesso solo perché non ha avuto il coraggio di fermare la sua persona che sparisce nel metrò. E non è di certo per questa ammissione di codardia che il brano fa parte dei due migliori del disco. Il pezzo si apre dinamico e felice, poi sembra diventare serio, d’un tratto ritorna fiabesco, coinvolgente, allegro, anche quando le persone gli spariscono davanti.
Indiani è il brano che più lo allontana dal cantautorato mainstream italiano. Anche qui ritorna quel sound fiabesco che ricorda una ninna ninna, e neanche qui la tristezza diventa protagonista, per fortuna.

Gli eccessi bruciano dentro la pancia /
Ma i compromessi fanno male all’anima

La verità di questa strofa, cantata su un ritmo dolce e caldo, mette in luce l’aspetto artigianale dell’album.

E se vi siete chiesti perché spesso ho detto che forse Gregorio Sanchez non ci bramava come spettatori del suo stesso album, è perché a differenza dei prodotti industriali fatti con l’unico fine di vendersi, le cose fatte a mano, come questo disco, spesso si fanno come regalo a se stessi. Per dar una forma propria alle proprie storie.

Gregorio Sanchez spesso introduce l’immagine delle “mani” nei brani, ed io non ho potuto fare a meno di immaginarlo con l’amore per il tatto, per le cose tangibili, vere, da tenere tra i palmi e proteggerle.

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