NOI/GLI ALTRI: la discesa negli inferi di SPZ

Avete presente la scena in cui Mathieu e Vic ballano un lento, lei con le cuffie del walkman sulle orecchie, lui che la stringe con delicatezza, sulle note di Reality di Richard Sanderson? Bene, l’atmosfera in cui vi trasporta il nuovo album di SPZ è esattamente questa. Un tempo sospeso a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, in cui sembra quasi di sognare ad occhi aperti avvolti da una nube di note che ci attraversano e ci trasportano nell’aria. Attenzione però: NOI/GLI ALTRI non è un disco che parla d’amore. C’è il sentimento per eccellenza, c’è una storia, c’è il cuore che batte, ma non è questo il fulcro del progetto. A dircelo è l’autore stesso, basta ascoltare la prima traccia, la chiave di lettura è tutta lì: scenderei anch’io, fosse utile, lo farei.

Tutto l’album racconta esattamente questo: una catabasi nell’io intervallata da ascese più o meno ripide.

Andrea Spaziani, il nome che si cela dietro SPZ, ci accompagna per mano in un viaggio attraverso sé stesso in cui mette a nudo tutte le sue debolezze. La prima è l’inettitudine, l’incapacità di lasciar andare le abitudini inutili e i vecchi vizi che ci inchiodano ai nostri stessi piedi impedendoci di muoverci e progredire. E a dirla tutta, è un limbo che sotto sotto ci piace, un dito dietro cui tutto sommato ci si può anche comodamente rannicchiare. Del resto, perché privarci dei nostri piccoli piaceri se poi chi non ne ha affatto fa esattamente la nostra stessa fine?

SPZ – NOI/GLI ALTRI [Ascolta Qui]
Dalla seconda traccia in poi, fa capolino l’amore di cui parlavamo all’inizio… e non è affatto una favola a lieto fine.

SPZ racconta la sua storia al contrario, dalle battute finali al principio. Bye bye, infatti, sembra richiamare l’omonima canzone di Oscar Anton non solo nel titolo ma anche nel contenuto: qualcosa è cambiato ed è ormai ora di dirsi addio. Se guardo da vicino tutto sembra più lontano: quante volte, svuotati di ogni sentimento, non abbiamo percepito il calore di chi avevamo a un millimetro da noi? E se penso a ciò che ho perso poi lo tengo nella mano: un po’ come cantava il mitico Faber, “quello che non ho è quel che non mi manca”.

Con Bambino andiamo ancora a ritroso e ripercorriamo quei momenti tipici di una storia d’amore sul nascere: l’imbarazzo iniziale, le figuracce che ci fanno arrossire, quel sentirsi un po’ bambini e un po’ scemi. È tutta una carrellata di immagini che conosciamo e che sembrano arrivarci come scene di un film più che come parole di una canzone. A questo punto sorge spontanea la domanda: cos’è puramente nostro e cosa è invece già preconfezionato nella nostra mente? Un interrogativo che trova un’amara risposta: saremo vuoti insieme.

Da questo momento in poi cambia tutto

La discesa nelle profondità di SPZ inizia qui. È il brano ||GRANDE|| a fare da spartiacque, come una sorta di portale dimensionale che segna il passaggio ad un’altra realtà. È un varco che si può attraversare soltanto prendendo la rincorsa e lanciandosi di petto in un vortice psichedelico, mentre una musica dai toni arabeggianti ci trasporta negli abissi del mare dell’io.

NOI:GLI ALTRI è il brano che segna questa tappa fondamentale della catabasi e che, non a caso, dà il nome all’intero album. La particolarità di questo pezzo sta innanzitutto nel cambio di prospettiva. Se nelle prime quattro tracce il rapporto è di 1 a 1 (i due protagonisti del flashback sentimentale), adesso il termine di confronto non è più un altro ma tanti altri. E anzi, SPZ non è soltanto uno, ma nessuno e centomila. Pirandello stesso sembra fare l’occhiolino al cantante e a sussurrargli all’orecchio i versi della canzone: siamo fatti di altri. Questa consapevolezza potrebbe far credere di possedere una variegata ricchezza interiore: ma è solo un’illusione. Siamo insignificanti come una qualunque buccia di banana lasciata su un marciapiede, calpestata e ignorata dalla folla come se non fosse mai esistita.

SPZ – Foto di Silvia Violante Rouge
Più si scende nelle profondità dell’animo, più alto diventa il prezzo da pagare.

Cosa fare a questo punto? Fermarsi per paura di quello che si potrebbe scoprire o continuare con l’avidità di chi vuole conoscersi per intero? HOPAURA descrive perfettamente questo dissidio interiore, dal timore di guardarsi dritto negli occhi alla necessità di avvicinarsi sempre di più al proprio riflesso nello specchio per vivisezionarsi con la meticolosità di uno scienziato. SPZ fa la sua scelta e si libera di ogni filtro per accogliere tutto ciò che è già dentro di sé: bellezze e brutture, grandezze e fragilità, nani e giganti.

Il risultato? Un iceberg dalla punta di diamante. Nel brano che chiude l’album, Tra Il Dire E Il Fare, Andrea rivela tutto se stesso, disegnandosi a modo suo, come una montagna immersa nell’acqua che lascia intravedere la sua parte preziosa e inscalfibile, costruita a suon di sbagli e passi falsi. Ho fatto cose che non direi, ho detto cose che non farei. Le debolezze restano nascoste sotto la superficie, ma non per imbarazzo o vergogna: sono le macerie da cui prende vita la maestosità della propria essenza.

Conclusione? SPZ costruisce un album sulla propria identità, ma non lo fa per egoismo o vanagloria. È il suo modo per presentarsi al resto del mondo in tutta la sua cruda natura umana, fatta di fallimenti molto più che di successi. Non è qui per prendere in giro nessuno, non vende mondi fantastici o finali da film strappalacrime. È vivo, nella sua pelle, con il suo respiro. Chi ascolta può decidere in qualsiasi momento di premere pausa e tornare a vivere il suo mito della caverna.

Foto di Silvia Violante Rouge

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