Francesco Guccini e le sue ottanta radici

Compiere gli anni significa anzitutto ricordare quando si è nati. È un viaggio a ritroso, intrapreso dalla memoria lungo il tempo che è trascorso. Un tempo che trova il suo compimento nell’età che ci portiamo addosso. Compiere gli anni significa allora ritornare alle proprie radici e osservarne lo scarto dal presente. Manco a farlo apposta, Radici (1972) è uno dei primi album realizzati da Francesco Guccini, che non si è limitato a compiere soltanto ottant’anni. Ha anche festeggiato, infatti, questo traguardo con un regalo davvero prezioso: la candidatura, annunciata qualche giorno fa, tra i finalisti del Premio Campiello.

Francesco Guccini, “Tralummescuro” (2019), romanzo finalista al Premio Campiello

Sì, perché oltre che un cantautore fra i più blasonati e apprezzati, Guccini è pure scrittore. E lo è da un sacco di tempo: praticamente da quando ha iniziato a scrivere canzoni. Che penna e chitarra siano mondi sostanzialmente complementari ce l’ha già insegnato qualche anno fa il buon vecchio Dylan, aggiudicandosi a sorpresa (e non senza polemiche) il Nobel per la letteratura. Il fatto, però, è che Guccini scrive proprio: in prosa, da romanziere, dilettandosi a sperimentare con le parole e il linguaggio, in una maniera sempre nuova ed inaspettata.

Sulla discografia di Francesco Guccini si potrebbero spendere fiumi di inchiostro.

E ancora non sarebbero sufficienti a riassumere i mille mondi portati alla luce dallo stile prismatico dei suoi componimenti. Ma forse proprio la parola “radici” ci viene in aiuto, rappresentando, più di tutte le altre, il cuore della sua ispirazione artistica. Sono radici ben salde quelle che legano Guccini a Pavana, piccolo paese tra Emilia e Toscana, rievocato anche in quest’ultimo romanzo. E sono radici anche quelle che il cantautore si dimostra capace di rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l’italiano e il dialetto. Ricordiamo, a tal proposito, la sua ultima apparizione discografica (nel novembre scorso) con il brano Natale a Pavana, pensato per il progetto di Mauro Pagani, Note di viaggio, e cantato interamente in dialetto. Guccini ama, insomma, ricercare i significati nascosti dei termini dentro la poesia musicata delle sue sempiterne canzoni.

Proprio Radici, allora, ci sembra il disco adatto per riscoprire questa poesia e tentare un ricerca simile. Tentare cioè di dare definizione più precisa a ciò che la parola radici può voler dire per noi e per lui, nel giorno del suo compleanno. E perché no, anche il giorno dopo.

La prima, omonima traccia ci ricorda come le radici siano anzitutto dei confini: confini della sera e confini dei ricordi. Oltre le nostre radici c’è il nulla, per noi, perché noi oltre non esistiamo. Ed è inutile cercare risposta ad ogni cosa non capìta. Com’è di fatto inutile cercare le parole quando

“La pietra antica non emette suono o parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo”

Quanta saggezza in questi versi, ma quanta dolcezza anche: due ingredienti di cui la memoria del nostro passato si nutre alacremente.

La locomotiva narra invece la storia del macchinista Pietro Rigosi, che il 20 luglio 1893, ventottenne, dirottò un treno scagliandolo a forte velocità verso la stazione di Bologna. La corsa fu fatalmente deviata su un binario morto e Rigosi sopravvisse, ma amputato e sfigurato. Questo brano, che Guccini dichiarò di aver scritto in venti minuti, ci ricorda allora che le radici sono storie, esattamente come questa, da ricordare e raccontare lungo i secoli.

La Piccola città della canzone successiva altro non è che Modena, sua città natale. Viene qui definita “bastardo posto” e “vecchia bambina”, luogo di “visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano”. Le radici, ci insegna allora Modena, sono le origini, nel senso letterale del termine: ciò che ci ha visti “oriri”, in latino “cominciare”. La stessa città di Modena fa poi da sfondo a Incontro, il brano seguente, che narra il trovarsi inaspettato e sospeso: quello fra due vecchi amici. Ogni incontro, va da sé, è radicato in un luogo ben preciso, sia esso fisico e reale come una stazione o intimo e più interiore come gli spazi sterminati della nostra mente.
Le radici, in definitiva, sono luoghi.

Canzone dei dodici mesi ci ricorda che per ogni luogo ci sono anche dei tempi, al plurale. I mille tempi della nostra vita: lineari, mancati, confusi, assenti, scanditi dai mesi che passano lenti o veloci, catturati o impalpabili. Gli alberi stanchi di gennaio, il sole malato di febbraio, la neve sciolta di marzo e l’amore fatto ad aprile e rinnovatosi in maggio cedono il posto a quel giugno dove Guccini ricorda che

“in un giorno, sotto il sole caldo, ci son nato io”

Poi i colori chiari di luglio e le ore fiacche di agosto aprono la via ai mesi autunnali. Quei mesi fatti dai ripensamenti di settembre, dall’ebbrezza di ottobre, tempo di vendemmia, per arrivare, attraverso le nebbie inquietanti di novembre, al mese di dicembre. Un mese dalle ombre pigre, un po’ come lo sono per terra quelle dei vecchi piegati su se stessi dal peso degli anni.

L’album si conclude con Canzone della bambina portoghese, forse la più ermetica e riflessiva di tutte, ricorda come le radici siano anche intuizione: parziale svelamento di una verità alla quale comunque non potremo mai accedere. Ma per chi, come il giovanissimo protagonista de Il vecchio e il bambino, fatica a credere ai racconti del nonno, le radici diventano purtroppo soltanto invenzioni.

Francesco Guccini ha festeggiato i suoi ottant’anni.

Ottant’anni fatti di confini, storie, luoghi e origini. Ha festeggiato i suoi tempi, i suoi mesi, le sue intuizioni e le sue invenzioni. Ha festeggiato, insomma, le proprie radici, come ogni compleanno ci costringe a fare e come questo suo disco ci insegna.

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