“Singolarità”: Lorenzo Kruger rompe col passato presentando un’inedita versione di sé

Dieci tracce inedite per raccontare una metamorfosi che è insieme artistica, interiore e cantautorale. È uscito il 10 settembre per Woodworm con la produzione di Taketo Gohara, “Singolarità” il primo disco da solista di Lorenzo Kruger. Distribuito da Universal Music Italia, il disco consegna al pubblico una dimensione più “privata” e intimista dell’artista, che affida i suoi testi ad atmosfere sinth per trasportarci in un mondo che si allontana da ovvie stereotipizzazioni e ripudia la banalità.

C’è una cosa che non mi capita spessissimo quando mi approccio all’ascolto di un disco per la prima volta. O meglio mi capita principalmente quando mi guardo indietro, specialmente coi testi dei cantautori del passato: mi riferisco al chiedersi come nascono certi giochi di parole, certe assonanze, certi significati, certi rimandi.

È questo quello che mi ha affascinata istintivamente nel nuovo disco di Lorenzo. Un lavoro frutto di attese, pazienza, riletture, ritorni. Dodici brani che provano a dare conto di ciò che Kruger cerca di fare con la sua musica. Osservare la realtà e lo spirito delle cose ponendosi con lo sguardo di chi cerca di analizzarla, da una diversa angolazione, forse per rispondere alla necessità, figlia dell’età adulta, di oltrepassare lo strato superficiale delle cose e poter guardare con lucida consapevolezza al presente e al futuro.

Lo abbiamo intervistato per saperne di più di questa sua “Singolarità”.

Lorenzo Kruger – Singolarità [Ascolta Qui]
Partiamo con una prima domanda “scomoda” per rompere il ghiaccio. Quanti anni hai?

Ho 44 anni. Vado molto fiero di questo traguardo anche perché penso di essere arrivato abbastanza integro. Ovviamente quando parlo di integrità intendo dal punto di vista fisico. Diciamo che mi considero un adulto prodigio… Per rompere il ghiaccio può essere discutibile come domanda, però non sono suscettibile all’argomento.

“Singolarità” è il tuo primo disco da solista. Un progetto che assume certamente una dimensione intima, come una sorta di accompagnamento nel quale sembra che le esperienze che racconti si facciano plurali nel senso che sembrano parlare di te ma anche in un modo o nell’altro di quelli che si approcciano al tuo disco, quelli che non si accontentano, gli insoddisfatti, gli inquieti, i caparbi.  È dunque un ritorno in cui l’unicità si esperisce scoprendosi simili agli altri?

Mi considero un istrione da tempi non sospetti. Mi vestivo strano quando tutti si vestivano normali, adesso che tutti si vestono strani, mi sento un po’ a disagio e ho cominciato a vestirmi normale. Ovviamente il vestito è la metafora di un discorso molto più ampio, mi riferisco all’atteggiamento; mi facevo i selfie quando le foto si facevano in pellicola, per cui adesso in quanto istrione mi sento un po’ fuori luogo. Diciamo che in mezzo a tutte queste singolarità mi confondo. Faccio fatica a farmi notare: sono tutti biondissimi, particolarissimi e io ironizzo perché in un momento in cui farlo era più controverso, adesso ho bisogno di sentirmi normale. Ma penso che forse dipenda da quel discorso anagrafico che facevamo prima.

Credo che adesso diventare adulti sia un traguardo invidiabile, in un momento in cui i sessantenni girano coi monopattini e non si capisce più chi siano i ragazzini e chi è la loro controparte. Io ho fatto un percorso che impone di diventare una controparte, anche rispetto alle cose che ti ho detto poco fa. Qualcuno lo dovrà fare, di mettersi più quietamente a guardare le cose. Penso anche che se non ci si mette dentro a dei recinti si faccia fatica a ribellarsi, per cui mi ci metto volentieri.

Pensi che in un certo senso le definizioni siano necessarie?

Io ho sempre sfuggito questo esercizio di definizione, a meno che non sia un’auto-definizione. Se come costrizione è inevitabile allora preferisco essere io a darmela, piuttosto che far dire ad altri cosa sono e quando succede di solito cerco di sviare, confonderli.

Lorenzo Kruger in uno scatto di Omar Migani
In cosa risiede la tua Singolarità?

La mia singolarità, se devo appropriarmi o proiettarmi addosso questa parola, io non la vedo tanto nell’accezione di uno, singolare ma la colloco in una dimensione scientifica, fisica, intesa come quel momento in cui succede qualcosa che sfugge ai calcoli che precedentemente riuscivano ad inquadrarla e descriverla.

Mi sono imbattuto in questa parola da vari ingressi e questo mi ha colpito. L’ingresso giusto per me in questo momento è quello che racconta l’evento che cambia tutte le carte in tavola. Kruger che a forza di fare concerti uno dietro l’altro, precipita in questa nuova forma che è questo nuovo disco; per cui una nuova percezione di me, per la quale potrebbero servire nuovi calcoli per individuare le mie coordinate rispetto a ciò che sono sempre stato, a certi modi di scrivere e di fare. Credo di aver avuto un cambiamento molto repentino.

Ogni brano si collega in qualche modo ad un vissuto personale. È difficile raccontare la tua quotidianità che inevitabilmente si lega ai tuoi affetti e alla tua sfera privata?

Ho un metodo di scrittura che mi consente di non pensare molto a quello che scrivo. Questa visione femminile nelle mie canzoni mi sfuggiva, diciamo che è una percezione molto soggettiva perché io solitamente tendo a fare il contrario. Non cedo al persistente gioco uomo-donna. Le canzoni funzionano così: ognuno deve poterci vedere quello che gli pare e se succede vuol dire che stanno facendo il loro lavoro.

C’è un brano col quale ti senti messo a nudo?

Se c’è non te lo dico, perché la nudità è un qualcosa che si deve vivere con pudore. Penso sia un qualcosa che fa parte del personale. Io credo nella scrittura che si prende tempo. Sicuramente scrivo anche cose di getto, ma è anche molto facile che scriva una parola al giorno alle cose che scrivo. E quella parola arriva con calma ma di getto. Per cui inevitabilmente si compongono cose che mi appartengono, mi assomigliano perché arrivano dal mio vissuto. Anche il caffè della barista ha il sapore di ciò che ha fatto cinque minuti prima di andare a lavoro

“Con me low fi” è un inno sarcastico in cui sbeffeggi e allo stesso tempo esalti le imperfezioni dei rapporti di coppia. Pensi che il segreto dell’amore sia la bassa fedeltà non intesa come tradimento ma come il rifiuto di quell’ideale romantico che lo dipinge come idilliaco ed eternamente felice? Qual è la tua idea di amore?

La mia idea di amore non è perfetta, per cui probabilmente non è un’idea. E siccome nelle canzoni si attinge sempre lì anche in maniera un po’ ipocrita perché partendo dall’assunto che bisogna scrivere solo di ciò che sai e che conosci bene, non credo che tutti siano così costantemente innamorati quando scrivono, per cui significa che stanno mentendo. Io per sottrarmi a questo peccato – per così dire – mi sono innamorato della donna con la quale vivo e dalla quale ho avuto i nostri figli.

Questa cosa è successa molti anni fa quindi non è che viva sempre quel perenne sballo amoroso, per cui se devo scrivere d’amore devo farlo guardandolo da altre angolazioni che per me sono più divertenti in questo momento. Quindi cerco di raccontarlo in una maniera più alternativa ma autentica per me. Per cui se adesso dovessi parlare di amore mi verrebbe anche facile trovargli dei difetti che derivano da fattori di lungo corso, dati da una lunga conoscenza, una lunga convivenza. Credo che in questo momento il darsi per scontati sia ciò che fa più male, ma nel senso che è un male per la coppia.

Lorenzo Kruger in uno scatto di Omar Migani
“Il calabrone” ridicolizza tutta una serie di frasi slogan che fanno breccia nel cuore dell’italiano medio e sembrano tratte da una campagna elettorale. Poi, però sullo sfondo c’è questa filosofia del calabrone che non demorde, insiste, nonostante la sua natura che gli impedisce di volare e che se vogliamo rappresenta la voglia di ribellarsi da queste verità confortevoli ma attanaglianti. Quanto è difficile trovare delle nuove vie per uscire dalla routine parole nuove e come nascono i tuoi giochi di parole?

Io ho un metodo: leggo le canzoni senza musica, immaginarle e portamele addosso per capire se quello che ho scritto è un qualcosa di cui vado fiero o meno. Sostanzialmente devo essere orgoglioso. Fino ad oggi ho suonato veramente tantissimo quindi so cosa vuol dire quando una canzone ti ha rotto veramente il cazzo. E siccome non posso permettermi che questo succeda, ho bisogno che la roba che mi metto in bocca sia buona, insomma. Per cui è tutto lì. Tu pensa di costruire una sedia sulla quale sai che ti dovrai sedere tutte le sere. Se ti fai questi pensieri ti preoccupi, fai sì che sia robusta, la controlli, fai dei test per provarla, io quando scrivo cerco di fare in modo che non si rompa.

Il punto è che spesso non ci si dà abbastanza tempo. Le canzoni non possono avere delle scadenze. Anche io potrei scrivere un contratto che mi obblighi a scrivere delle canzoni entro il prossimo aprile, non l’ho mai fatto. Ciò potrebbe o farmi scoprire un altro metodo di scrittura che mi piace o potrei scrivere, essenzialmente, dieci cagate. Diciamo che fino ad ora non mi è mai successo.

C’è una canzone che si intitola “Dio T benedica”. Mi viene spontaneo chiederti: qual è il tuo rapporto con Dio?

Il mio rapporto con Dio è totale: io sono dio, tu sei dio, siamo tutti dio. Non sono monoteista e credo che siamo dentro a questa energia che se vogliamo dargli un nomignolo, possiamo chiamarla Dio. Non credo che esista una parola precisa per descrivere questo concetto, per cui ovviamente è un a fregatura. Mi auspico, ed è quello che ho sempre pensato, che la fisica ci regali un dio. La tecnica ci regalerà un dio perché abbiamo abbandonato la spiritualità come ricerca. Per il momento non ne so di più.

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Raccontaci l’idea che soggiace alla copertina

Io dovevo uscire in una maniera completamente indipendente per cui avevo architettato una campagna in un’idea iconoclasta che prendeva le mosse dalla polemica che puoi immaginare rispetto a cosa significhi fare un disco nel 2021. Poi sono sempre stato uno che ha amato il contatto con il pubblico per cui è una sorta di scesa in pista per sprofondare in modo totale nel rapporto con gli altri. Le ante sono divise il 50 quadrettini e la risultante è ciò che hanno scelto coloro che hanno acquistato gli spazi.

Poi siccome per fortuna non avevo più l’esigenza di autoprodurmi, abbiamo deciso di donare i soldi ad una associazione che si chiama Casa di Gesso di Cesena una scuola teatrale per bambini che grazie a questo contributo ha potuto erogare delle borse di studio. Alla fine, diciamo che da quella che voleva essere una provocazione, siamo riusciti a trarne qualcosa di buono.

Se potessi tornare indietro, c’è qualcosa che cambieresti del tuo passato?

Sto pensando a quale cazzata eliminare che mi abbia precluso un passo successivo. Direi che in linea di massima se potessi consiglierei al me stesso del passato di essere meno strafottente, maleducato, più rispettoso. Ma poi penso che se così fosse adesso non sarei io e avrei a che fare con un altro. Quindi credo che vada bene così. Forse avevo bisogno di fare tutti gli sbagli che ho commesso per essere la persona che sono e che devo dire francamente, mi è abbastanza simpatica.

Foto in copertina di Omar Migani

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