Essere Florence W/elch.

Per un attimo ho voluto accantonare tutte le mie perplessità sull’uso del verbo essere e sul significato che assume nel momento in cui cerchiamo di adoperarlo per descrivere l’identità di qualcuno. Nessuno mi ha ancora distolto dall’idea che ‘essere’ e ‘divenire’ siano forme ancora incomplete per parlare di quel miracolo complesso ed enigmatico che è la personalità, l’esperienza umana e il suo scorrere su questa terra. Eppure una domanda mi è sorta spontanea, quando ho terminato di ascoltare High as Hope, l’ultimo album dei Florence and the Machine:  

chi è, allora, Florence Welch? 

I’m sorry I ruined your birthday /
guess I could go back to University /
Try and make my mother proud /
Stop this phase I’m in, she deems dangerous /
In love /
The spelling is a problem /
As is the discipline /
don’t think it would be too long /
Before I was drunk in Camberwell again  

L’intero percorso musicale di questo disco è cosparso di tracce autobiografiche nette e precise, piccole e dolorose incisioni su di un braccio. Florence ci ha permesso di penetrare all’interno dei suoi ricordi, in un vortice che ci sospende a metà strada tra sequenze frammentate della memoria e diverse tonalità di nostalgia. Non ci aspettavamo di conoscere così Grace, la sua sorella minore, e di scoprire che anche la dea preraffaellita di Camberwell ha deluso le aspettative di sua madre. Quest’ultima era difatti lecturer presso il King’s College di Londra in Reinassence Studies (Adesso si capiscono molte cose).

Eccola lì un attimo dopo, ubriaca per le strade di Londra, sovrastata dalle droghe o mentre rovina il compleanno della sua sorellina. Certo, non capita tutti i giorni di chiedere scusa ai propri fratelli con una canzone di fama internazionale, ma non è nemmeno poi così strano immaginare come sia difficile sedersi accanto ai nostri familiari e comunicargli quanto sia profondo il nostro amore per loro. Alle volte le parole restano semplicemente spezzate in gola, trattenute da paure composite, lunghe decenni.

Florence, anche tu eri un cazzo di casino. 

I’m sorry I ruined your birthday you had turned 18 /
And the sunshine hit me and I was behaving strangely /
All the walls were melting and there were mermaids everywhere /
Hearts flew from my hands and I could see people’s feelings /
This is the only thing I’ve ever had any faith in /

Florence percorre in bicicletta le strade della sua amata South London, passa velocemente nei luoghi della sua giovinezza. Tornano indietro gli odori delle serate, le nottate passate al Joiners Arms, celebre locale londinese. Nella tipica atmosfera soffusa e balbettante in cui riappaiono i ricordi. 

When I go home alone /
I drive past the place where I was born /
And the places that I used to drink /
Young and drunk and stumbling in the street /
Outside the Joiners Arms like foals unsteady on their feet  

Nulla appariva meglio di questo.

Fluttuare tra le braccia di sconosciuti, sentire il mondo e l’intero arco delle possibilità sulla punta delle proprie dita, dimenticarsi di sé stessi. Il futuro era ancora lontano, ma adesso Florence può usarlo per guardare indietro e trattenere tra le mani il suo passato, con la delicatezza e spietata lucidità che sembrano non abbandonare mai la sua voce. 

With the art students and the boys in bands /
High on E and holding hands with someone that I just met /
I thought “it doesn’t get /
Better than this /
There can be nothing better than this /
Better than this /

Sembra di essere distanti anni luce dal tono elegiaco e misterico di Cerimonials e la gola seccata dal pianto di How big… lascia spazio a una narrazione minimale, un diario trattenuto, a volte impulsivo, sincero. Forse una nuova forma di sacralità, quella che si abbraccia quando si incontrano le infinite identità passate che abbiamo vissuto.  

At seventeen, I started to starve myself /
I thought that love was a kind of emptiness /
And at least I understood then the hunger I felt /
And I didn’t have to call it loneliness 

Tutti noi abbiamo fame.

E la condizione essenziale per provare la sensazione di essere affamati è l’assenza, l’impossibilità di essere pieni e soddisfatti. È il nostro rapporto di senso con il vuoto o – più precisamente – con la vuotezza, con l’impressione di sentirsi progressivamente svuotare dall’interno.  

Per la prima volta Florence Welch inserisce lievi accenni al disturbo alimentare che caratterizzò la sua tarda adolescenza. Fermo sulla carta, forse finalmente compreso, è il frutto di un sentiero tracciato per affrontare quel vuoto indotto e ostinatamente trattenuto. In fondo, è davvero semplice pensare che l’amore sia una forma di vacuità, quando lo si cerca ovunque e sembra non risiedere in alcun luogo. 

I thought that love was in the drugs /
But the more I took, the more it took away /
And I could never get enough /
I thought that love was on the stage /
You give yourself to strangers /
You don’t have to be afraid  

E la immaginiamo sul palco adesso.

Ci ha rivelato di cadere, prima di ogni concerto, in uno stato di tranceattraverso l’ascolto continuato e ripetitivo di alcune playlist. Fuori di sé o fin troppo dentro di sé, si immerge nella sua performance. Ci dice che non è possibile non ascoltare le sirene, sembra non potersi salvare da questa forma di possessione. Poi, talvolta, si sveglia e si ritrova a fluttuare tra la folla. I thought I was flyingbut maybe I’m dying tonight. È impossibile nascondersi dai fulmini, in a sky full of songs.

Inoltre, Florence ha ancora paura dell’oscurità. Questo lo confessa a Patti Smith nella canzone Patricia, dove ci svela uno dei suoi modelli, la sua stella del nord. Ed in questa scia di sorellanza e sostegno reciproco al femminile (come non pensare a Maria Antonietta, in questo caso) qualche giorno fa ci ha regalato la bellissima cover di Cornflakes girl, in origine cantata da Tori Amos. Le cornflakes girls rappresentano difatti le donne ubbidienti, conformate al sistema, che non lottano per difendere le altre donne. Vi si oppongono invece le raisin girlsle ‘ragazze uvetta’. Queste sono meno commerciali, rare e non assimilabili agli stereotipi sociali. 

Never was a cornflake girl. 
Thought that was a good solution hangin‘ with the raisin girls. 

Torniamo però ad High as Hope

In questo album pensato e scritto tra le strade di Londra e i grattacieli newyorkesi (high as hope, per l’appunto), è ancora presente la capacità di Florence di descrivere gli amori impalpabili. Composti di assenze, risposte mancate, fantasmi.  

You need a big god /
Big enough to hold your love /
You need a big god /
Big enough to fill you up 

You keep me up at night /
To my messagesyou do not reply /
You know I still like you the most /
The best of the best and the worst of the worst /
Wellyou can never know /
The places that I go /
still like you the most /
You’ll always be my favourite ghost 

Servirebbe una divinità immensa, difatti, per riempire il vuoto che lascia un amore inespresso. Un dio per abbracciarlo, quando appare muto. E non risponde ai nostri messaggi. Questo è Big Godil tentativo di sopravvivere alla fame del nostro cuore. Big enough to fill you up.  

Perché gran parte della narrazione dell’amore è basata sull’assenza dell’amore stesso.

Stesi sul letto ad attendere, sospesi tra i ricordi. Chi non si è mai sorpreso a guardare le strade di una città appena conosciuta con gli stessi occhi di una persona amata anni prima? 

No chorus could come in /
About two people sitting doing nothing /
But I must confess /
did it all for myself /
gathered you here /
To hide from some vast unnameable fear /
But the loneliness never left me /
I always took it with me /
But I can put it down in the pleasure of your company  

Uno dei guadagni dell’età adulta è scendere a patti con l’insignificanza, con una matassa inestricabile – seppur nitida – di momenti banali. Nessun cerimoniale, nessuna drammaticità, solo un modo nuovo di essere soli insieme. Come antieroi beckettiani, si resta seduti a far nulla. No ballad will be wittenit will be entirely forgotten.

È sempre la tragedia l’unica misura dell’amore? 

1 Comment

  1. Fito 21/09/2018 at 2:33 pm

    Il the Joiner Arms di cui parla Florence non è quello di cui hai parlato tu. Il suo è a Camberwell non a East London!


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