Infrangere i confini: la contaminazione I Hate My Village

Non è la prima volta che grandi nomi della musica contemporanea, appartenenti a diverse famiglie, si riuniscono dando vita a progetti creativi singolari. Quando, ad inizio anno, è uscito l’album degli I Hate My Village, le aspettative comuni erano alte, così come il mio personale entusiasmo.

Si vociferava già da tempo sulla collaborazione tra uno dei più grandi chitarristi italiani, Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e il noto batterista Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35). In seguito, il sodalizio è arrivato quando ai due, si sono ufficialmente aggregati Marco Fasolo e Alberto Ferrari (Verdena). Insomma, quattro grandi musicisti uniti nella ricerca di un sound che combinasse influenze africane, al rock di alto livello.

I Hate My Village è il Disco omonimo, composto da nove brani che scorrono veloci, tra riff psichedelici, influenze blues e melodie energiche.

La copertina dell’album, curata da Scarful, ci introduce nelle atmosfere crude e a tratti macabre che permeano i suoni del gruppo.

Tony Hawk of Ghana è il brano d’apertura, ottima premessa di quello che avverrà a livello sonoro in buona parte del Disco. L’intro vigorosa subito esplode nella totalità armonica costruita da chitarra e linea di basso regolare.  La musica incalza senza sosta la melodia dominante, guidata dall’inconfondibile voce del Frontman dei Verdena. Segue Presentiment, pezzo strumentale, in cui spirito creativo e virtuosismo danno vita ad una parentesi strumentale libera. La batteria nervosa e irregolare si intreccia alle distorsioni metalliche, che fanno da sfondo ad un synth tagliente.

Il terzo brano è Acquaragia, a mia parere la punta di diamante dell’EP. Viterbini dà prova della mostruosa bravura che da sempre lo contraddistingue, proponendoci un riff di chitarra spettacolare. Fabio si immerge in un groove di batteria brillante, il basso ondeggia e la voce di Alberto rende il brano completo, diretto e tridimensionale.  Si prosegue con Location 8 e Tramp, in cui i musicisti giocano con toni, ritmi e vibrazioni, finendo con un climax musicale ascendente.

Arriva Fare un fuoco, un brano fatto di estremi, dove il cantato fa da padrone. Si alternano cori distesi alla voce aggressiva e nevrotica di Ferrari, che riesce a trasmettere dinamismo di suoni e inquietudine nell’ascoltatore. Subito si rimedia con Fame. Pezzo molto disteso e piacevole, che tuttavia conserva i ritmi primitivi e le aree ancestrali, fili conduttori dell’intero lavoro.

Bahum e I ate my Village concludono il disco: il primo è un inno dolce ma possente, il secondo si presenta come brano istintuale, magico e immediato.

A fine Aprile, dopo varie date in giro per l’Italia, gli I Hate My Village hanno voluto regalarci I Hate My Bonus Tracks.

Quattro tracce che arricchiscono l’LP in maniera coerente e interessante. Chennedi e Location 2 si fanno portatori dei suoni afro-rock, ritmati e prepotenti. Probabilmente, però, Elvis è il brano che meglio rivela l’influenza dei live nella composizione dell’ultima parte del lavoro. Infatti, il pezzo assomiglia alla registrazione di un’improvvisazione strumentale nel mezzo di un concerto, in cui musicisti professionisti danno prova della loro bravura.

Erroneamente, quando esce un lavoro collaborativo tra professionisti noti, si ragiona per estremi: sarà il disco italiano dell’anno? Rimarrà un lavoro di nicchia incomprensibile ai più? Ecco, Album e Bonus Track non si posizionano in nessuna delle due categorie. E vi spiego perché.

La genesi del progetto sta nella voglia di sperimentazione, visibilmente spontanea, che ha spinto grandi professionisti del panorama musicale nostrano a scambiarsi esperienze e abilità. Il merito, tuttavia, lo si deve attribuire anche a Bombino e Rokia Traorè. Miti indiscussi del sound subsahariano, un paio d’anni fa, sono stati accompagnati da Viterbini e Rondinini nei live, portando una ventata d’aria fresca tra le loro idee. Inoltre, sarebbe riduttivo porre sullo stesso piano il lavoro degli I Hate My Village con le ultime uscite indie-pop italiane o con la trap. La chiave di lettura, a mio parere, sta nei live. È proprio il palco la dimensione dei musicisti che portano sulle spalle anni di studio, competenze ed esibizioni. Per questo, prima di gridare al capolavoro o alla mediocrità, consiglierei a chiunque di andare ad ascoltare la band dal vivo.

I Hate My Village è un disco accattivante e fresco, un gioiellino dai suoni esotici che ci lascia un messaggio sottile e interessante. Nell’era del post-colonialismo, restare nel proprio villaggio combattendo contro spinte inarrestabili e attuali come la globalizzazione, il dislocamento e la contaminazione culturale, può portare al rancore e alla rabbia. Anziché arrivare ad odiare il proprio villaggio natio, confinato nella sfera musicale italiana, i membri degli I Hate My Village, scommettono su un progetto che cavalca tendenze musicali più che mai attuali. Forte di virtuosismo e versatilità, la Band è riuscita a creare un disco che ha tutte le carte in regola per sfondare e trovare un senso fuori dai confini nazionali.

Foto di @paolo.de.francessco

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