Livio Cori e il suo “core senza paura”

Stavo seguendo un po’ svogliatamente il Festival di Sanremo, quando annunciano i prossimi artisti in gara. Entrano Nino D’Angelo e un ragazzo alto, bello, in un completo nero. Partono le prime note di Un’altra luce: è stato quello il momento in cui è nato il mio amore platonico per Livio Cori.

Lo scorso 8 novembre l’ho incontrato allo Smav. Abbiamo fatto una chiacchierata in cui ho cercato di mascherare tutto il mio imbarazzo ed essere quanto più professionale possibile. Ci ha raccontato delle sue origini e di come nella sua musica si mescolino tradizione e innovazione. Il forte legame con la sua terra, la voglia di farcela senza seguire strade facili, Livio è sempre pronto a rischiare e sperimentare, senza mai dimenticare “casa sua” e le donne, muse dei suoi versi più romantici.

Alla fine dell’intervista non gli ho rivelato i miei sentimenti, ma spero possa essere comunque di vostro gradimento.

Livio Cori @Smav – foto di Simona Nunziata
Ciao Livio. Questo è stato un anno molto importante per te. È uscito il tuo album ‘’Montecalvario’’, che porta il nome del posto in cui sei nato. Al titolo hai aggiunto “core senza paura”. Cos’è per te un “core senza paura”?

È un pezzo che c’è nel disco che ho scritto un po’ per me e un po’ per dare coraggio a chi lo ascolta. Sia quello appena trascorso, sia quello precedente, durante il quale sono nati gran parte dei brani, sono stati anni abbastanza pesanti in cui mi sono trovato a dover affrontare un po’ di cose e sicuramente per doverlo fare mi son dovuto dare molto coraggio. ‘’Core senza paura’’ è stata una delle ultime canzoni che ho scritto e che poi ha chiuso l’album. Ho deciso di darlo come sottotitolo perché questo disco, oltre a essere un punto di partenza, è anche un disco che mi dà molto coraggio e che mi fa da armatura per andare avanti.

Sanremo è stato sicuramente una tappa fondamentale per la tua crescita artistica. Cos’è cambiato per Livio dopo Sanremo?

Sanremo è sicuramente una grossa vetrina che ti dà la possibilità di farti conoscere da tante persone, poi ovviamente sta a te farti valere. È un palco importante su cui mai mi sarei aspettato di salire. In realtà è stata una decisione che abbiamo preso insieme io e Nino dopo aver lavorato a questo brano che inizialmente era per il mio disco e non creato per Sanremo. In ogni caso fare Sanremo è stata un’esperienza assurda. Non ero proprio preparato psicologicamente a buttarmi in una cosa del genere! Sicuramente mi ha insegnato molto e mi ha fatto crescere artisticamente dandomi la possibilità di farmi conoscere da tante persone.

A livello personale diciamo che quando realizzerò te lo farò sapere (ride). Da febbraio non ho avuto molti momenti di pausa in cui fermarmi e realizzare quello che è successo. È stato un po’ come un sogno, qualcosa che fatichi a credere sia successo davvero. In effetti la mia vita di tutti i giorni non è cambiata, ad esempio vivo ancora nel mio quartiere, anche se mi sposto molto. Io per primo non cambierei la mia vita, anzi tutto questo mi tiene con i piedi per terra e mi dà più energia per lavorare alle prossime cose.

Quali sono le tue influenze musicali? Che musica ascoltavi e quanto ha influito sulla tua di musica?

Diciamo che sin da piccolo grazie ai miei genitori ho ascoltato e assorbito un sacco di generi. Mio padre mi faceva ascoltare i Pink Floyd piuttosto che i Rolling Stones, ma anche Pino Daniele. Mia madre invece era ballerina quindi ascoltavo anche tanta musica classica. I primi ascolti veramente miei sono stati quelli appartenenti alla cultura hip hop, tutta la musica black, il soul, ed è da lì che arriva gran parte della mia musica. Sono passato anche al cross over, ero un fan sfegatato dei Linkin Park. Tutto questo è andato a formare il mio disco che è un po’il risultato di tutti i miei ascolti nel tempo.

Dalle tue canzoni emerge sicuramente un forte legame con Napoli e con la sua cultura. A volte, se vogliamo, racconti anche il cliché del ragazzo dei quartieri che magari si innamora della ragazza della Napoli bene. Quanto è vera questa cosa?

È vera questa cosa, io ho sempre cercato di mantenere un’onestà. Alla fine forse il cliché più grande è quello del ragazzo dei quartieri che spaccia. Invece un ragazzo dei quartieri che parla d’amore, al di là del neomelodico, non lo senti spesso nella musica.

A tal proposito, quanto è stato difficile staccarsi dallo stereotipo del napoletano che fa neomelodico?

(ride) Bisognerebbe chiederlo anche a Pino Daniele, ad esempio. Non che voglia paragonarmi, però lui ad esempio era un napoletano che faceva blues. Questo per dire che non sono sicuramente il primo a prendere delle sonorità che vengono da oltreoceano e portarle nella cultura napoletana. Entrambi i mondi hanno influito molto, sia gli ascolti oltreoceano che la cultura partenopea sono entrati in qualche modo in collisione dando vita a quello che poi sto facendo.

Non a caso scegli di cantare in napoletano. Hai mai pensato che questa scelta, per quanto coerente, potesse in qualche modo limitarti col pubblico e “rinchiuderti” all’interno dei confini della tua terra?

Io ho scelto di cantare in napoletano per questo progetto perché il concept che c’è dietro è quello di “casa”. Montecalvario è il quartiere dove sono nato, e siccome era il mio primo disco, di ritorno da varie esperienze a Milano volevo tornare anche musicalmente “da dove sono partito’’. Ciò non significa che tutti i miei prossimi lavori saranno in dialetto, non significa che saranno totalmente in italiano, potranno essere un ibrido, come effettivamente è tutta la mia vita. Io posso parlare in italiano, in dialetto, dipende dal contesto, dalla situazione, anche dagli stati d’animo (ride).

E sì, talvolta ho pensato che potesse essere limitante. Diciamo che è un’arma a doppio taglio, perché mentre la mia musica può risultare internazionale per quanto riguarda il sound, per altro verso usare la lingua napoletana può essere un rischio. Quando vado in giro per l’Italia a suonare non mi capiscono tutti, in più c’è sempre lo stereotipo del napoletano che può essere un ulteriore limite. È una scelta che bisogna fare con coraggio.

Quando fai musica o segui il mercato o ti lasci portare da quello che hai in testa, altrimenti sarebbe poi tutto uguale. Questo progetto è nato con questo concept e doveva essere portato avanti con questo concept. Lo stesso pezzo di Sanremo era nato tutto in napoletano poi c’è stato un adattamento richiesto dal direttore artistico e io, non Nino, mi sono dovuto adattare un po’ alla circostanza non per mia volontà però che fai nun o faj?! (ride)

Da Nino D’Angelo a Coco: com’è nata ognuna di queste collaborazioni? Raccontaci un aneddoto legato ad esse.

Con Nino D’Angelo potremmo parlarne da qua fino a dopodomani. Sicuramente nascono tutte da un rapporto umano. Coco e Samurai sono innanzitutto amici, quindi la collaborazione con loro parte da lì oltre che da una stima artistica. Nino non lo conoscevo prima. La mia richiesta di collaborazione è nata dal desiderio di collaborare col ‘’re di Napoli’’, su quello che era un progetto dedicato completamente a questo, quindi avevo bisogno che lui dicesse “o può fa, vai!”, però siccome non collabora in progetti di altri, mi ha prima voluto conoscere. Ricordo che abbiamo fatto una cena.

Era febbraio 2018, lui era in giro da solo per concerti, io pure. Ci siamo ritrovati a cena insieme e solo dopo ci siamo accorti che era San Valentino, infatti lui diceva na ricimm sta cosa, e poi ci siamo innamorati lì (scherza). Durante questa cena ci siamo raccontati l’un l’altro e siamo entrati in una sinergia incredibile. Io vedevo in lui un maestro e lui rivedeva in me molte cose di lui, un po’ del suo percorso, del suo background e solo dopo quest’incontro ha accettato di parlare di musica. Gli ho presentato questo brano di cui lui è rimasto super contento. Il brano è stato scritto da Frank Fogliano, batterista e compositore nonché mio caro amico. E poi il resto lo conoscete.

Frank: lui in pratica mi ha portato un testo e mi ha detto voglio dire questa cosa musicalmente, aiutami! La cosa è nata molto come una collaborazione

Con Samurai e Coco invece ho scelto di fare dei remix di miei brani. Ci tenevo a dare qualcosa in più al pubblico, rispetto a dei brani che conoscevano già. Il mercato ti impone di fare sempre qualcosa di nuovo e io invece di buttare le cose vecchie ho voluto rielaborarle e dargli quel quid per renderle 2.0. Samurai è quello più festoso quindi “A casa mia” era perfetta. Tra l’altro non mi aspettavo che avesse questo successo, quest’impatto, è diventato un po’ un inno. Con Coco condividiamo un po’ gli stessi ascolti, veniamo dalla stessa matrice r ’n’ b. Gli ho lasciato molta libertà nella scelta del brano siccome avevamo in mente già da tempo di collaborare, e il brano più vicino anche a quello che fa lui è sicuramente “Adda passà”, quindi abbiamo scelto questo.

Quindi dobbiamo aspettarci altre collaborazioni e altri remix tratti da Montecalvario?

Non so mai cosa aspettarmi, certe cose nascono a sentimento. Ho fatto tanti di quei progetti che poi sono stati stravolti, quindi non so nemmeno io cosa aspettarmi.

A tal proposito ci sono delle scelte di cui ti sei pentito o dei ‘’no’’ che rimpiangi?

Ho detto no ad un sacco di cose, cose per cui la gente si sarebbe staccata una gamba ma non mi sono assolutamente pentito. Cerco sempre di essere coerente sulle cose altrimenti rischierei di non essere credibile. Ad esempio non sono un tipo da talent. Non voglio discriminare i talent, ma io non centrerei nulla, non saprei cosa fare, sarei ridicolo. Ho rifiutato molte opportunità che potevano essere una scorciatoia ma alcune cose così come arrivano veloci così possono andarsene altrettanto velocemente.

Ho capito che voi siete rane ma io cerco di fare un po’ la tartaruga (ride).

Livio Cori @Smav – foto di Simona Nunziata
Hai un passato da giocatore di basket e in Gomorra ti sei avvicinato al mondo della recitazione. Cosa avresti fatto se non ti fossi dedicato alla musica?

In Gomorra mi sono trovato per caso, mi hanno chiamato per questo ruolo, avevano già fatto un cameo con Enzo Dong, cercavano dei nuovi scagnozzi per questa nuova banda, ho fatto per gioco il provino, è andato bene e ho accettato. Ho pensato “adesso faccio la colonna sonora, scrivo un pezzo” e infatti così è nata “Surdat”. Il basket è una parentesi che ho chiuso con tristezza, ngap a me diventavo un giocatore di basket. Ma hai visto un po’ quanto sono alto?! non sono per niente alto.

Non so, avrei potuto fare tremila cose. Ho provato a fare design all’università ma non faceva per me. Ci ho provato, forse avrei fatto il designer oppure magari il commesso alla Footlocker o in un negozio di streetstyle, essendo comunque legato alla cultura hip hop in cui anche lo stile ha la sua importanza.

Hai uno stylist?

No, come si può ben vedere (lui è molto più bravo di me, riferendosi ad Ethan Lara). Dipende dal mio umore.

Dicci una cosa che non può mai mancare nei tuoi pezzi.

Non manca mai una figura femminile, una musa che non è mai la stessa! (ride)

A proposito di donne, dai tuoi testi emerge che hai sofferto per amore. Parlarne nelle tue canzoni ti ha aiutato a superare questa sofferenza o ancora “adda passà”?

Ti rispondo così: (intona) “nun pass maje”. Il tempo, serve tempo per far passare le cose, anche se tutto resta un po’. Le cose passano ma lasciano inevitabilmente un segno. Se così non fosse vorrebbe dire che non sono state importanti, che si è trattato di avventure. Le cose belle o anche quelle molto brutte ti segnano.

A breve sarai impegnato in delle date europee. Cosa ti aspetti da queste città e da questa esperienza?

Adesso abbiamo Bruxelles e Parigi. A Bruxelles non sono mai stato quindi spero innanzitutto di avere il tempo per visitarla. A Parigi invece ci sono già stato però suonarci è diverso. Sarà sicuramente una sfida perché l’estero è sempre un punto interrogativo. Lo faccio perché mi piace mettermi alla prova e cercare di portare il più lontano possibile la mia musica. Poi i napoletani stanno ovunque. (ride).

Un'intervista di Luisana Basilicata
Foto di Simona Nunziata

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