Tradizione e rinnovamento: è davvero cambiato il Festival di Sanremo negli ultimi anni?
Ci sono due tipi di persone che aspettano Sanremo: quelli che lo vogliono vedere fallire e quelli che lo amano, a prescindere. O almeno questa era la classificazione sostenibile fino a qualche anno fa. Data l’evoluzione a cui il Festival è andato incontro, negli ultimi anni, dalla direzione artistica Baglioni in poi, molti di coloro che giacevano arroccati sulla certezza di disgustare la kermesse si sono, se non ravveduti, incuriositi. Ma facciamo un salto indietro.
Da quando il Festival prende vita, nel 1951, i cambiamenti sono stati strutturali.
Basti pensare che al tempo c’erano pochissimi interpreti (una storica, Nilla Pizzi) per svariate canzoni. Infatti non erano i cantanti ad essere in gara – volti e voci funzionali alla rappresentazione – bensì i compositori dei pezzi. Il premio? L’inclusione del brano vincitore nel repertorio dell’orchestra della RAI. Non è infatti da trascurare, nella composizione artistica e culturale di Sanremo, il ruolo di mamma RAI, che aveva il monopolio su radio e TV.
Questa, infatti, ha per anni gestito, finanziato, amministrato e conseguentemente filtrato i contenuti del Festival. Lo scopo era infatti quello di sfruttare Sanremo come evento propagatore dell’idea di società e di mondo che la RAI stessa aveva in mente per il paese.
Insomma, una sorta di funzione “educatrice”, in una veste assolutamente “media”, che non doveva mai né stupire né sconvolgere. Chiaramente in questo scenario non è difficile avvertire una sorta di eco post-fascista, e senza sbagliare. Questa modalità di diffusione della cultura è rimasta tipica della RAI (che fino al 1944 fu EIAR, ovvero l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche di cui lo stesso regime si avvalse per propagare i suoi ideali), con severa attitudine conservatrice, anche dopo la cessazione del monopolio del 1976.
La Redazione
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