Galoni racconta perfettamente questo “tempo storto”

Cronache di un tempo storto” conferma ancora una volta la solidità del progetto cantautorale di Galoni. Il racconto di una realtà in movimento, con un occhio sulle vite degli altri “sono meglio di un affresco, le storie dei passanti”, fino alle incursioni nel proprio mondo interiore.

Questo disco, pensato nel cuore della pandemia, quando le coordinate spazio-temporali e sociali furono stravolte in poco tempo, ci porta a fare i conti con quei cambiamenti profondi che sembrano essere stati dimenticati troppo in fretta. Abbiamo chiesto a lui, ad Emanuele, di accompagnarci nelle sue canzoni per poter cogliere anche le sfumature più nascoste, che hanno a che fare con la letteratura, con il giornalismo e con alcuni fatti di cronaca.

Prima di arrivare al tuo ultimo disco “Cronache di un tempo storto”, voglio chiederti quando hai deciso di essere musicista, di cominciare a scrivere canzoni? Insomma come nasce il Galoni cantautore?

Ho cominciato a suonare dopo una figuraccia in un saggio di scuola media. Dovevo cantare “Dammi solo un minuto” dei Pooh con un testo rivisitato e dedicato alla mia professoressa d’italiano. Stonai in modo terribile, ricordo ancora l’insegnante di musica con le mani nei capelli. Tornai a casa e presi la chitarra classica di mio fratello. Qualche anno dopo cominciai a scrivere canzoni. Ogni tanto mi capita in mano un testo dell’adolescenza.

Le tue canzoni hanno un forte impatto descrittivo, le parole che scegli ci consegnano delle immagini molto chiare. L’attenzione alla metrica, la scelta e la resa delle parole, sono il frutto di un lavoro profondo sulle canzoni?

Per me il lessico è fondamentale ed è bello giocarci, anche azzardando termini inusuali per una canzone. Io sono particolarmente legato al linguaggio figurato. Penso ai migranti che remano con i cucchiai ed hanno una conchiglia scolpita sulla pancia (come nel nel brano “Come il cobalto negli iPhone“), è bastato cambiare due sostantivi per dire il motivo della traversata del Mediterraneo, che è la fame, la miseria. Insomma, ho bisogno di spennellare, di ricreare delle immagini o scene. Mi piace inoltre l’idea di un realismo magico, dove i due piani si sovrappongono. Questo è dovuto anche alla mie letture.

Galoni – Cronache di un tempo storto [Ascolta qui]
In “Cronache di un tempo storto ci sono tante frasi che potrei riportare come sintesi dei racconti, come per esempio “Se la riflessione ormai è soltanto chiacchiera da bar” dalla traccia d’apertura “Patrimonio dell’Unesco” che rimandano alla superficialità con cui ormai si blatera su tutto senza prendersi la briga di conoscere.

Beh, anche “la conoscenza è un pugno di farina”. Ecco, forse stiamo diventando la famosa infarinatura generale. Il sapere implica studio, lavoro, sacrificio, sforzo mentale e fisico. Stiamo diventando indolenti e indifferenti. L’equivoco più grande è che il sapere sia immediato e a portata di mano quando invece è esattamente il contrario.

L’osservazione della realtà, per i cantautori, penso almeno da Woody Guthrie in poi (che tu per altri versi citi anche nel brano di chiusura “Buoni propositi per il nuovo anno”) è sempre stata la fonte principale per raccontare fatti e sfumature di quello che succede, con la propria sensibilità.
Raccontare questo tempo “storto” accresce, come dire, a volte l’indignazione per raccontare una storia? In questo disco ci sono riferimenti al crollo del ponte Morandi, a un naufragio di migranti.

Raccontare quello che ci succede intorno fa parte anche della mia breve formazione giornalistica, un lavoro che ho praticato per qualche anno agli inizi del duemila. Ma indubbiamente ha anche origine dagli ascolti di vecchi cantautori, soprattutto anglosassoni. Più che altro c’è la necessità di cantare un punto di vista diverso, che è quello di un artista. Ecco, forse la più grande perdita non sarebbe tanto una canzone che descrive un fatto o la realtà, bensì quel punto di vista altro, artistico, di cui c’è sempre estremamente bisogno.

Nelle undici tracce spesso riaffiora l’idea di casa, da varie angolature, come prigione, come rifugio sicuro, come sogno per chi non ce l’ha, e non solo come luogo fisico. Mi parli un po’ di questo aspetto? Te ne sei accorto mentre lo scrivevi?

Il concetto di “casa” si è palesato alla fine, ascoltando i mix. Mi sono accorto che ritornava in ogni canzone, declinato in modo diverso. Tutti i protagonisti delle canzoni hanno a che fare con essa. C’è qualcuno che la cerca, qualcuno a cui manca, qualcuno che la trova e la crea. C’era un filo che univa tutto, fin dalla prima canzone “L’esercizio fisico di piangere”, dove racconto la mia esperienza di lockdown trascorso a casa mia. Ho chiesto dunque ad Andrea Calisi, un grande illustratore, di creare una copertina dove ci fosse una casa dai toni metafisici. In quella cover c’è buona parte del senso di questo disco.

Galoni
Galoni
La pandemia deve essere stato un banco di prova importante per chi come te racconta la realtà e la quotidianità, perché credo che i cambiamenti individuali e collettivi che quel trauma ha messo in atto ancora non si sono compresi fino in fondo. Si può già azzardare qualche riflessione sull’osservazione pre e post pandemia guardando quello che ci capita intorno?

Gli effetti di quella esperienza si capiranno bene nei prossimi anni, soprattutto quelli sociali e mentali. Per farti un esempio, lavorando nel mondo della scuola capisci che ci sono ragazzi che sono rimasti molto indietro nell’acquisizione delle capacità e delle competenze. Dobbiamo fare un lavoro diverso perché i ragazzi hanno perso almeno due anni di didattica.

Nel brano “Gino” sugli effetti della pandemia ci ritorni dando un paio di pennellate al negazionismo… Anche se poi in tanti brani ci sono anche delle vicende personali, come è naturale che sia.

Gino fa da contraltare all’incertezza totale e collettiva. Lui è un personaggio positivo, determinato, convinto e soprattutto felice della vita che conduce, senza mai lamentarsi. Questa canzone racconta di quando mi confrontai animatamente con un no vax al bar che era tutto il contrario di Gino. La peggiore ignoranza non è non sapere le cose ma è non fidarsi o non affidarsi a chi le cose le sa.

Restando sul racconto della realtà in musica, argomento che spesso compete ai cantautori, non pensi che questo tempo appunto così storto stabilisca dei criteri, per cui chi davvero vuol essere cantautore deve fare uno sforzo maggiore per poter raccogliere e raccontare quel pizzico di universale che si cela nel particolare?

Oggi i cantautori subiscono il compromesso con il mercato. Scrivere una canzone di 7 minuti con lo stesso giro e la stessa melodia non andrebbe da nessuna parte e sicuramente darebbe noia a lui stesso, ormai intrappolato in certi schemi. Io stesso nella stesura mi ritrovo a tagliare testi, a trovare una melodia accattivante che renda più fruibile il pezzo. Oggi i nuovi cantautori, e mi riferisco alla categoria di quelli impegnati, sono alcuni rapper che raccontano il disagio personale e collettivo.

Galoni
Galoni
Il tuo lavoro di insegnante ti porta ad avere un punto di osservazione sui giovanissimi, che probabilmente sono stati i più travolti dalla pandemia. La velocità con cui tutto si muove, sembra aver già lasciato tutto alle spalle. Le prime avvisaglie di civiltà post pandemica, sembrano non mantenere quelle promesse di solidarietà e di “ne usciremo migliori” che si sbandieravano dal chiuso di quattro mura.

Tu come intravedi questo periodo fatto di poca memoria?

Come ti dicevo, abbiamo perso almeno due anni di didattica e questo graverà sul futuro. Altra questione epocale è la memoria storica. Tendiamo a rimuovere, annullare, dimenticare. C’è un libro che dovrebbero leggere tutti, “I sommersi e i salvati” di Primo Levi, in particolar modo “La memoria dell’offesa”, il primo capitolo. Qui l’autore indaga in maniera scientifica la memoria, intesa come un muscolo che va allenato continuamente onde evitare il ritorno dei revisionismi e negazionismi. Come ne siamo usciti dalla pandemia? L’annullamento comporta inevitabilmente la rimozione dell’esperienza da cui uscire, quindi è come dire “non siamo mai entrati”.

I riscontri sia di critica che di pubblico sono buoni, ma che ritorni stai avendo, anche dal tuo pubblico, rispetto ai temi che hai posto con questo disco?

Sono felice di questo disco perché è stato un lavoro duro. Il pubblico cresce e la cosa che più mi colpisce è che è molto variegato. Mi confronto spesso sia con i ventenni e con chi ha una età molto più avanzata.

Grazie per questa chiacchierata con Le Rane

Grazie a voi

Avevamo parlato di Galoni qui, in occasione dell'uscita del suo disco "Incontinenti alla deriva"

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