Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani: per farsi coraggio, piano dopo piano, si ripete “Fino a qui tutto bene”, “Fino a qui tutto bene”. Ma il problema non è la caduta, è l’atterraggio. Come La Haine di Mathieu Kassovitz, “Pista Nera” è il racconto sonoro di un sistema di valori prossimo allo schianto. Pubblicato lo scorso novembre, il quarto disco dei Post Nebbia è un concept album che traduce in musica il senso di vertigine che affligge la contemporaneità.
Abbiamo approfondito quello che è stato uno dei migliori dischi usciti nel 2024 secondo la nostra community con Carlo Corbellini (Testi, Voce, Chitarra, Moog, Percussioni), che ha risposto alle nostre domande.
La copertina di “Pista nera” è molto suggestiva. Pensavo fosse un dipinto, con quei colori pastello e i livelli di prospettiva, ma ho letto che è una fotografia del tuo bisnonno. Ti va di raccontare la storia di questa foto straordinaria?
È una foto molto vecchia, penso risalga agli anni Trenta o giù di lì. Mentre stavo ancora scrivendo il disco, mio zio ha convertito in digitale tutto l’archivio di diapositive di mio bisnonno, che si dilettava in alpinismo e avventure di questo genere. Quando ho visto questa foto ho pensato fosse monumentale, per i livelli, la grana, la scena ritratta: una copertina perfetta. Ho scoperto poi che l’altra persona ritratta insieme a mio bisnonno, l’uomo fuori dalla casetta, è Jacopo Linussio, amministratore della fabbrica di sci Lamborghini, sulla Carnia.
Linussio era appassionato della montagna a livelli folli, una sorta di Iron Man: ha scalato il Cervino a 85 anni. Esiste anche un documentario su di lui, che però non riesco a recuperare da nessuna parte. Apparteneva a una generazione di gente fuori di testa, in senso positivo; soprattutto le persone di montagna erano costruite veramente in modo diverso. Io non riesco a fare tre ore di camminata senza sputare i polmoni.
Ti sei imbattuto nella foto mentre eri già in studio a registrare il disco, quindi è stata una coincidenza fortunatissima.
Sì. C’è sempre molto scambio tra il ragionare e il fare un disco. Nei primi pezzi che ho scritto non c’era ancora l’idea della montagna; quando poi siamo andati a fare delle prove in montagna, ho connesso dei puntini e ho capito che poteva essere un tema visuale, e non solo, molto appropriato. La foto è arrivata l’anno scorso, circa tre mesi prima di registrare in studio, quando avevo già il 70-80% del lavoro.

Restando in tema, “Pista nera” è la metafora sciistica con cui giochi per parlare della discesa, o meglio, della caduta che preannuncia lo schianto. Spinti da un arrivismo accentratore e imperturbabile, miriamo solo a scalare la montagna e arrivare in cima. Ma una volta raggiunta la vetta, bisogna saper scendere. O si precipita.
Quando in “Piramide” scrivi “Che vuoi salire in cima alla piramide (che cosa ne sarà di te) \ Guarda gli insetti morti nelle lampade (non c’è metafora migliore)”, ho pensato al film La Haine di Mathieu Kassovitz e alla iconica frase “Fino a qui tutto bene: ma quel che importa non è la caduta, è l’atterraggio”. Hai scritto un disco molto caustico però non nichilista.
Rispetto alla produzione precedente, “Pista Nera” è molto più scuro, ma non lo definirei pessimista o nichilista. Ho cercato di puntare lo sguardo sul presente e ho colto un oggettivo e percepibile disfacimento. Ogni volta che mi trovo a dover scrivere, cerco qualcosa di cui valga la pena parlare, che ha la necessità di essere detta. In questo periodo ho voluto spostarmi dalla mia individualità per osservare e raccontare quello che mi circonda. La mia sfida personale è stata scrivere di ciò che sta succedendo, affinché ognuno possa trarre le proprie conclusioni.
Mi sembra assurdo che non ci sia musica incazzata in questo momento in Italia. È un po’ l’immagine del fango intorno alla pista, no? Nella nostra vita tendiamo a tenere gli occhi fissi sulla pista, invece in questo momento dovremmo fermarci un attimo, guardarci intorno e vedere il disastro per cercare di farci due conti e provare a trovare un modo nuovo di vivere. Non so, questa è un po’ l’idea: scuotere le coscienze.
L’intento è recuperare una dimensione più collettiva e politica della musica, che vada oltre l’intrattenimento e l’espressione di sé.
Si fa fatica oggi a usare il potere che abbiamo, per quanto piccolo, di veicolare messaggi attraverso la musica. Negli anni Novanta, senza andare troppo indietro nel tempo, la musica era molto più militante. Non è quello a cui vogliamo tornare, però penso che bisogna prendere spunto da quel periodo lì: dopo tanti anni di musica, anche molto bella, ma molto incentrata sull’individuo, secondo me è arrivato il momento di spostare l’attenzione sulla collettività e tirare le somme.
A proposito di dimensione collettiva della musica, a novembre ho partecipato alla Festa di Dischi Sotterranei. Per me è stata la prima volta e sono rimasta davvero colpita: crowd surfing selvaggio, artisti del roster che si abbracciano sopra e sotto il palco, tanta energia e voglia condividere musica e divertirsi insieme. Mi racconti il rapporto con l’etichetta? Quanto è stata importante nel vostro percorso artistico?
Dischi Sotterranei è una dimensione ideale: è una realtà ordinata e strutturata che lavora molto bene, ma con principi e modalità meno corporate. Il risultato è che l’artista riceve attenzione e vicinanza ed è incoraggiato a crescere nel proprio percorso creativo, non solo per vendere, ma per esprimere tutto il proprio potenziale. La scena indipendente cerca di creare qualcosa che sia culturale e non soltanto capitalistico. Anche grazie alla festa, ci stiamo sempre più frequentando a vicenda, c’è più comunità tra gli artisti, influenza reciproca. In questo momento storico in cui è tutto così frammentato, in cui siamo tutti chiusi in casa con Spotify, è una cosa che apprezzo molto. Quasi tutta la musica italiana che ascolto viene dalla nostra etichetta.

Si vede che siete una grande famiglia. Credi si tratti di un’eccezione, oppure in Italia c’è più spazio c’è per la musica alternativa?
La musica indipendente e alternativa funziona un po’ così. Qualcuno una volta mi ha fatto questo esempio: quando i Verdena sono in tour, tutti i cartelloni dei festival sono meglio del solito. E cioè, quando arriva un artista indipendente forte è un bene anche per tutti gli altri, perché partecipano più persone che ascoltano attivamente le nuove proposte, c’è più contaminazione. Credo sia un modo molto più sano di approcciarsi a un ambiente dove generalmente regnano competizione e rivalità: si procede verso una causa comune, che è quella di avere musica più figa, più concerti, più dischi per tutti.
Il 2024 è stato un anno incredibile: mi sento davvero molto ottimista riguardo al nostro mestiere, perché è evidente che la gente ha bisogno di questa cosa qua. Alla festa c’erano persone che aspettavano l’evento da mesi: secondo me è un segnale molto forte che sta per arrivare un bel momento.
I testi che scrivi sono densi e di spessore. Come ti approcci alla scrittura?
Dipende dai casi. Ci sono strumentali che rimangono lì per mesi prima di avere un testo e ci sono testi, solitamente brevi frasi, che rimangono lì per mesi prima di avere una strumentale. Tendenzialmente, lavoro per estrazione, sia musicalmente sia testualmente: parto da un’idea, che potrebbe essere un ritornello o l’inizio di una strofa, e da lì sviluppo il resto. Lo stesso discorso vale anche per il disco: comincio da una canzone e poi trascorro mesi a mettermi le mani tra i capelli senza sapere dove sbattere la testa. A un certo punto scrivo un pezzo che mi indica la direzione verso cui andare: in questo caso è stato Pastafrolla. Da lì in poi ho ingranato ed è andato tutto abbastanza liscio.
Rispetto ai lavori precedenti, “Pista Nera” mi è sembrato più pensato per essere suonato dal vivo. Dico bene?
In passato i dischi arrivavano in sala prove solo una volta finiti e quindi è capitato che ci fossero parti di produzione poco naturali da adattare dal vivo, per esempio linee di basso o di batteria impossibili da suonare con lo strumento. Con Pista Nera, abbiamo voluto evitare questo problema, ma non solo: la sfida è stata proprio riuscire a registrare fa una band vera e propria, e cioè imparare a suonare le tracce molto bene prima di inciderle. Anche in fase di scrittura ho pensato a una dimensione più corale: per esempio alcuni pezzi sono venuti fuori da delle jam session. Nel complesso, è un album molto più collaborativo dei precedenti, cucito addosso ai nostri suoni, alle nostre macchine, che si distingue come lavoro di una band.
Ho amato la registrazione vocale di “Leonardo”, l’intro del disco, e sono molto curiosa di sapere dove sei andato a pescarla.
Questa è stata una bellissima idea di Giulio Patarnello, il tastierista. Avevamo uno strumentale improvvisato, rimasto fuori, che non riuscivamo a collocare. Non me la sentivo di fare un’intro strumentale senza narrativo perché mi sembrava una cosa un da sborone che se la crede, nonostante comunque io l’abbia già fatto per ben tre volte. Al che, abbiamo scritto il testo e chiesto al manager di Dischi Sotterranei, Michele Novak, che è di Feltre, nel cuore delle montagne venete, di farlo recitare a una persona di quelle parti. Ci aspettavamo di ricevere uno o due audio, invece ce ne ha inviati più di 15: ha praticamente registrato tutti i membri della sua famiglia. Alla fine abbiamo scelto la traccia di suo cugino.
Avete scelto l’accento veneto più pronunciato. E invece passando alle altre 11 tracce, immagino sarai affezionato a ciascuna canzone per varie ragioni, ma ce ne è una che ti ha parlato di più? Oppure una che ti ha fatto particolarmente soffrire?
In ogni canzone c’è qualcosa che amo. Non saprei scegliere, però per esempio di Piramide sono particolarmente fiero degli accordi, del ritornello e del testo. Tra l’altro, è stato proprio l’ultimo testo che ho scritto: era tra gli strumentali rimasti per un anno senza ritornello e ho chiuso le ultime frasi al limite, praticamente davanti al microfono per registrare. Se sei vicino alla scadenza, capita che i testi vengano fuori da soli, senza overthinking. Anche Notte limpida, che mi piace molto, si è scritta da sé, in chiusura del disco, senza troppo rimuginare. Invece Stato Natura è stata più ostile. Ci ho messo del tempo a capire cosa volevo dire, cosa doveva succedere nella canzone: a un certo punto avevo sei o sette versioni diverse.
Quali difficoltà si incontrano quando si registra un disco?
Più che difficoltà, direi imprevisti. Non puoi mai prevedere del tutto quel che viene fuori prima di registrare. Per esempio, quando registri una batteria, il suono che ne esce cambia completamente il modo in cui suona tutto il disco: se il charleston è troppo aperto, entra in tutti i microfoni e si sovrappone al resto. Ma arrivati a quel punto non si può fare molto. Con l’esperienza, ho imparato che l’approccio giusto è prendere quel che arriva, lavorare al meglio con il materiale che si ha e magari essere anche disposti a cambiare idea. Per “Pista Nera” inizialmente avevo immaginato un sound più pulito e molto meno live, invece spacca così come è uscito: le persone che suonano in carne ed ossa aggiungono sempre qualcosa in più, di inafferrabile. Non è una difficoltà, è forse l’aspetto più bello.

È partito il tour dei Post Nebbia che porteranno il loro nuovo disco “Pista Nera” prima in giro per l’Europa e poi dal 23 gennaio in giro per l’Italia.
15 Gennaio – Groningen (NL) – ESNS- 16 Gennaio – Bussels (BE) – Coin culture
- 17 Gennaio – Cologne (DE) – IICColonia
- 18 Gennaio – Berlin (DE) – LARK
- 19 Gennaio – Munich (DE) – Unter deck
- 23 Gennaio – ROMA – Largo SOLD OUT
- 24 Gennaio – FIRENZE – Viper Theatre
- 29 Gennaio – MILANO – Magazzini Generali
- 30 Gennaio – TORINO – Hiroshima Mon Amour
- 31 Gennaio – PADOVA – Hall
- 6 Febbraio – BOLOGNA – Locomotiv club NUOVA DATA
- 7 Febbraio – BOLOGNA – Locomotiv club SOLD OUT
- 8 Febbraio – PORDENONE – Capitol
- 20 Febbraio – POZZUOLI(NA) – Duel Club
- 21 Febbraio – MOLFETTA(BA) – Eremo Club