C’è sempre un attimo in cui l’imprevisto irrompe e cambia il corso delle cose. Fuori Menù, il primo album ufficiale di Golden Years nasce esattamente da lì: da ciò che non era previsto ma che, proprio per questo, si rivela più autentico. Dodici brani e quindici artisti raccolti in un mosaico che è insieme intimo e collettivo, personale e generazionale. Il titolo stesso suona come una dichiarazione di intenti: quello che non ti aspetti, il piatto che non avevi ordinato, ma che finisce per segnarti più di tutto il resto.
Golden Years – all’anagrafe Pietro Paroletti, classe 1993 – non è nuovo alla scena musicale italiana. Romano, cresciuto in quell’incrocio culturale che ha visto l’indie e il pop fondersi con nuove forme di urban ed elettronica, ha costruito negli anni un profilo unico: quello del produttore capace di dare a ogni voce un’identità sonora inconfondibile. Dal mixtape Casematte all’EP Era Spaziale [ne abbiamo parlato qui], fino alle produzioni per artisti come Franco126, Coez, Mahmood, Elodie, Psicologi, nayt ed Ele A, Paroletti ha lasciato un’impronta chiara: la musica come spazio di incontro, contaminazione, racconto. Con Fuori Menù questa visione trova la sua sintesi: non più solo collaborazioni puntuali, ma un lavoro che diventa manifesto.

La cifra dell’album non sta nella ricerca del singolo da playlist o nella furia di produrre brani a effetto immediato, bensì nella volontà di proporre un’esperienza condivisa.
Golden Years mette insieme quindici voci diverse, ma ciò che ne esce non è un’antologia casuale: è un organismo unitario, vivo, che respira della tensione tra fragilità e desiderio, tra ironia e malinconia, tra leggerezza e peso esistenziale. Il collante non è un genere, ma una certa sensibilità. Quella di un produttore che ascolta, filtra, trasforma e restituisce un suono che porta impresso il segno del tempo in cui viviamo.
Le tematiche che attraversano Fuori Menù sono quelle di una generazione in bilico. La solitudine e la ricerca di connessione, l’amore come approdo precario, il ricordo di qualcuno che torna a ferire o a consolare. C’è il desiderio di mandare tutto all’aria per amore, di distruggere per ricominciare, di ripartire da zero pur di trovare un senso. I testi raccontano relazioni che sfuggono, distanze che si allungano, desideri che resistono. Ma non c’è mai autocommiserazione: al contrario, emerge la capacità di trasformare la fragilità in gesto artistico e il disincanto in racconto collettivo. La musica diventa il luogo dove l’incertezza trova dignità, dove l’ansia di vivere diventa lingua condivisa.
Centrale è il tema della collettività.
Fuori Menù non è un disco che mette in vetrina la figura del produttore o i featuring come trofei, ma costruisce un coro orizzontale. Dai nomi già affermati come Calcutta, Coez, Frah Quintale, Franco126, Ariete e Fulminacci, fino alle nuove voci emergenti come Lorenzza, faccianuvola, Masamasa e Dov’è Liana, ogni presenza diventa necessaria. Non c’è gerarchia, non c’è competizione. C’è un dialogo in cui ogni voce trova il suo spazio e, insieme alle altre, dà forma a un ritratto di generazione. È come se Golden Years avesse voluto immortalare non solo un suono, ma una comunità: un insieme di artisti che, pur con estetiche e percorsi diversi, condividono la stessa urgenza di raccontarsi.

Il disco affronta così i temi universali dell’amore e della perdita, ma li intreccia a riflessioni più sottili sul nostro tempo. C’è l’eco di una generazione che si muove tra la leggerezza dell’istantaneità digitale e il bisogno profondo di radici emotive; una generazione che balla anche quando tutto intorno sembra crollare, che cerca la leggerezza pur sapendo che il peso del reale non smette mai di incombere. La musica diventa un atto di resistenza: il suono che consola, che accompagna, che rende condivisibile la vulnerabilità.
Dal punto di vista sonoro, “Fuori Menù” è un compendio di stile eclettico.
Pop elegante, elettronica atmosferica, groove che pescano tanto dal funk quanto dal rap, melodie che si aprono a spazi di sospensione e introspezione. Ogni brano è costruito con una precisione millimetrica, ma senza perdere calore. Golden Years dimostra di essere un architetto del suono capace di costruire ambienti sonori che non imprigionano le voci, ma le accolgono, amplificandole. Il risultato è un disco che riesce a essere sofisticato senza essere elitario, accessibile senza rinunciare alla profondità.
Anche l’artwork firmato dall’artista statunitense Nick Dahlen rafforza questo racconto: il serpente che morde il polso, la città che crolla, il sogno che diventa visione. È l’immagine di un cambiamento, di una trasformazione inevitabile. Proprio come accade nei dodici brani, in cui ogni frammento di vita, anche il più doloroso, viene trasfigurato in materia musicale. L’arte, ancora una volta, come antidoto al caos.

Se allarghiamo lo sguardo, Fuori Menù si inserisce in una stagione musicale italiana che da anni si muove sul crinale tra mainstream e indipendenza, tra la ricerca di un linguaggio nuovo e la nostalgia delle radici cantautorali. Questo disco segna una svolta: non più soltanto l’incontro tra un produttore e un artista, ma la costruzione di un vero e proprio archivio generazionale. In un momento in cui le uscite musicali rischiano di scivolare nell’oblio dopo pochi giorni, Golden Years sceglie la strada più difficile: dare unità e coerenza a un insieme di voci che, insieme, raccontano il presente meglio di qualsiasi classifica.
“Fuori Menù” non è un album comodo.
Non si lascia relegare a sottofondo, non vive di ascolti distratti. Pretende attenzione, pretende coinvolgimento. È un disco che chiede di essere attraversato. Dentro quelle dodici tracce si muove un racconto più ampio: quello di un presente frammentato, fragile, ma ancora capace di generare bellezza. Golden Years si afferma così non solo come produttore, ma come narratore, coscienza critica e architetto sonoro.
E quando l’album finisce, resta il senso di aver condiviso qualcosa di raro. L’idea che l’imprevisto, ciò che non era stato programmato, possa diventare la parte più vera della nostra esperienza. Fuori Menù non ti lascia solo con canzoni da ricordare, ma con la consapevolezza che la musica, quando sa rischiare, può ancora cambiare il modo in cui guardiamo il mondo.
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