Brunori Sas e l’albero delle noci (ma anche la quercia, la palma e la vite)
«Oltre all’albero delle noci, ci sono altre piante che possono rappresentare bene la nascita di una canzone. La quercia ad esempio, perché le canzoni – almeno quelle che mi hanno cambiato la vita – sono brani che hanno una certa solidità e quindi mi piace pensare a loro come a delle querce, nel loro aspetto più sacrale. Poi c’è la palma, come quella che cresce di fronte al mare davanti alla casa dei miei genitori, che penso rappresenti bene tutti gli aspetti della canzone aventi a che fare con il surreale e la magia, oltre che con i suoi lati più pungenti. In ultima analisi, penso all’alberello della vite, che anticamente si piantava da solo e non a filari. Siccome sono un grande amante del vino, devo dire che molto spesso il vino aiuta la composizione delle canzoni: soprattutto quello che produco io».
Inizia così la nostra chiacchierata assieme a Dario Brunori – meglio conosciuto come Brunori Sas – in gara al 75esimo Festival di Sanremo con L’albero delle noci, un brano ispirato alla sua recente paternità. Ma che, come vedremo, contiene tanti altri input, per niente scontati.
Prima di tutto, come stai e com’è andato il viaggio? Abbiamo visto dalle tue storie Instagram che a farti compagnia c’erano Pasolini e Teresa d’Avila, assieme ad un pacchetto di noci sgusciate.
Il viaggio è andato bene. E sì: mi sono portato appunto dei santini, da mettere quantomeno sul comodino. Poi devo dire che sto avendo pure il tempo di spulciarli un po’. Di solito comunque porto sempre con me alcuni buoni libri, anche solo come feticcio per tenermi compagnia. In questo modo è come se fossero presenti accanto a me, quasi fisicamente, determinate figure ispiratrici. Dunque sì: al momento, e in buona compagnia, fin qui tutto bene.

Arrivando alle “noci” e dunque alla tua canzone, uno dei versi mi ha colpito molto: quando canti “vorrei cambiare la voce”. Una cosa che mi sembra tu abbia fatto, concretamente: ad ascoltarti permane sempre una cifra riconoscibilissima nel tuo timbro, ma mi sono resa conto che, soprattutto nel ritornello, è presente anche qualcosa di diverso rispetto al Brunori che seguiamo da sempre.
Sì, hai colto bene. Nel corso degli anni ho capito che il tono che più mi piace, nelle cose che canto, è proprio quello che ho cercato d’incarnare in questa canzone. Mi piace anche urlare, mi piace anche graffiare con la voce, perché comunque c’è una parte di me che ha bisogno di fare questo. Ed è forse la parte più ancestrale, quella della musica popolare calabrese, che mi lega a figure come Rino Gaetano e che è influenzata da tutto il rock che mi ha cresciuto. Ad un certo punto, però, mi sono reso conto che volevo arrivare a Sanremo inaugurando un tono diverso nel mio modo di cantare. E questo mi piace moltissimo.
Anche la restante parte dell’album è all’insegna di questa trasformazione?
Più o meno sì. Sai, il lavoro che abbiamo fatto con Riccardo Sinigallia è stato anzitutto un lavoro di scrittura, ma che si è mosso su tutti i piani di una canzone. E le canzoni non sono fatte solo di scrittura musicale e testuale, ma anche d’interpretazione e di voce. Il ruolo di Riccardo in questo senso è stato pazzesco e sono grato a lui per avermi trasmesso il suo approccio.
Nel testo in sé invece ho notato tanti riferimenti biblici: che ruolo ha la spiritualità in questo “nuovo” Brunori?
Forse ha una funzione meno predominante rispetto ad altri miei album precedenti. Negli anni ho palesato sempre di più questo mio peculiare sguardo sulla realtà, caratterizzato da un senso sacrale. Chiaramente qui ho utilizzato delle immagini che hanno a che fare con la mia infanzia e la mia adolescenza. Pur non essendo in senso stretto una persona credente, posso dire che sicuramente la mia visione, come la visione di quasi tutti gli italiani, è permeata di cristianesimo. Mi piaceva inserire questo aspetto perché, nei versi in cui l’ho fatto, parlavo della mia terra e proprio nella mia terra la cristianità esiste e persiste. Ed esiste in un’ottica decisamente più biblica, quindi ancestrale, piuttosto che evangelica.

Citi infatti “le vacche grasse e le vacche magre” del sogno di Giuseppe nella Genesi.
Esattamente. Ho sempre amato quest’immagine delle vacche grasse che in quel sogno si avvicendando subito alle vacche magre, perché la legavo proprio al mondo calabrese: ovvero al fatto che noi calabresi viviamo perennemente l’idea di una felicità provvisoria. Penso sia per questioni storiche, legate ai terremoti e dunque alla precarietà stessa della terra, oppure al fatto che siamo sempre stati una regione occupata da qualcuno, soggetta ad un invasore. Culturalmente custodiamo la felicità con l’idea che un giorno verrà meno e quindi il verso che fa riferimento alle vacche grasse e alle vacche magre mi sembrava l’immagine perfetta per rappresentare la Calabria.
Il tema preponderante del brano è però la genitorialità. Ci sono due canzoni in quest’edizione del Festival che mettono in musica la riflessione sull’essere genitori e l’essere figli: la tua, “L’albero delle noci”, e quella di Simone Cristicchi, “Quando sarai piccola”. Ci si chiede spesso quando finiamo di essere figli per diventare genitori, ma forse entrambi i vostri brani ci danno la risposta risolutiva: mai.
Sì, secondo me in questo non c’è mai una linea di confine, così come non c’è mai per nessun’altra cosa nella vita. Quando possiamo dire che il nostro essere bambini è giunto ad una fine, se non per una questione legata al corpo? Ma il corpo è una parte che chiaramente non rappresenta il tutto. E soprattutto non rappresenta la realtà psicologica dove siamo calati.
A volte penso che coesistono e coesisteranno per sempre in me il Dario bambino, il Dario adolescente e il Dario adulto, così come penso che coesistono e coesisteranno per sempre il mio essere figlio e il mio essere genitore. E in quest’ultimo caso intendo sia il genitore che sono diventato nella realtà che il genitore interiorizzato, quello che ha a che fare con un’idea di genitorialità legata al rapporto con il mio bambino interiore. Si tratta di un aspetto che reputo molto interessante.

E forse la tua canzone rappresenta un po’ anche questo: cambiare le proporzioni del proprio cuore significa espanderlo affinché comprenda tutti i ruoli che ci troviamo ad incarnare nella nostra vita.
Sì, un po’ sì. Anche se, con quel verso lì, intendevo dire che a volte si ha troppa paura di non riuscire a sostenere il bello e la felicità. Un timore che probabilmente è anche legato all’educazione ricevuta, al “stai attento” che ci veniva urlato quando eravamo piccoli. Da noi si dice sempre “statt’accuort”, quasi a significare che, in ogni cosa, la prudenza non è mai troppa. Questo tendenza alla prudenza ce la portiamo dietro sempre e va a finire che anche nella felicità si è prudenti. Anche nella gioia incredibile che si può provare con la nascita di un figlio, in questo amore che quasi non lo riesci a sopportare, perché è strabordante e ad un certo punto senti che diventa troppo.
Allora mi piaceva raccontare una presa di coscienza ulteriore: l’accorgerti che non hai più il cuore di prima e che provi paura solo perché pensi di non poterlo sopportare, perché non hai ancora capito come quella gioia lì in realtà abbia modificato l’architettura e le proporzioni del tuo cuore. E questo significa che non c’è più nulla di cui aver paura.
Tu sei venuto a patti con questa paura?
Sì, assolutamente sì. Adesso devo dire che ho un rapporto molto più sereno rispetto alle mie paure, perché le ho accettate. I nostri rapporti più difficili sono inevitabilmente quelli con tutto ciò che non accettiamo, ma che in realtà fa parte della nostra vita. Ho imparato che più accetti la paura e più la paura viene meno.
POST SCRIPTUM: In playlist, Brunori consiglia di ascoltare la sua nuova canzone, L’albero delle noci, preceduta da L’anno che verrà di Lucio Dalla e seguita da un qualsiasi brano di Riccardo Sinigallia. In questo Festival, invece, fa il tifo per Lucio Corsi, che definisce «una creatura poetica». Proprio come lui.
In copertina una foto VIA GETTY IMAGES
Monica Malfatti
Beatlemaniac di nascita e deandreiana d'adozione, osservo le cose e amo le parole: scritte, dette, cantate. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità a Trento, scrivo a tempo pieno (ma anche a tempo perso).